La nuova edizione critica dell’Etica di Dietrich Bonhoeffer

È di notevole interesse il recente proliferare di letteratura sul pensiero e la vita di Dietrich Bonhoeffer. Negli ultimi tempi questa figura di «teologo, cristiano e uomo del nostro tempo»1 è tornato a riscuotere grande interesse in ambito sia teologico che filosofico. Ma si tratta di un revival alquanto lontano dai toni e dalle forme, che hanno caratterizzato l’ondata di entusiasmo che aveva avvolto la sua figura negli anni Sessanta-Settanta, un entusiasmo che per la verità aveva spesso travisato il suo pensiero, confondendolo con esigenze e problematiche ad esso estranee e riducendolo per lo più alle riflessioni frammentarie delle ultime opere, in particolare di Resistenza e resa. Dalla bibliografia degli ultimi anni sono ravvisabili una maggiore attenzione alle opere del periodo accademico e del Kirchenkampf e la ricerca di un percorso unitario all’interno della produzione bonhoefferiana. In particolar modo viene posta al centro la prospettiva cristologica, quale chiave di volta della riflessione di questo teologo, che, pur mostrando una certa evoluzione, rimane in fondo coerente con se stessa.2

La nuova edizione critica dell’Etica, uscita in lingua originale nel 1992 e in traduzione italiana nel 1995, fornisce un prezioso materiale a conferma di questo orientamento. La nuova sistemazione cronologica degli scritti lasciati incompiuti da Bonhoeffer, realizzata attraverso attente perizie sul tipo di carta e di inchiostro e attraverso un approfondito studio filologico, ha reso ormai praticamente impossibile l’interpretazione “radicale” o marxista, che si basava sostanzialmente sulla frattura che sarebbe esistita tra gli scritti dell’ultimo periodo e quelli precedenti. In questa visione l’Etica rappresentava un momento di passaggio preparatorio alla rottura che si sarebbe consumata durante la reclusione, in particolare a partire dalla lettera del 30 aprile 1944. Il nuovo ordine, invece, ha messo in luce come alla base di ciò che ci è pervenuto dell’Etica di Bonhoeffer ci sia un intento sistematico forte, una trama unitaria, che non è per nulla in contrasto con gli sviluppi di Resistenza e resa e ha il suo punto focale in quella che per primo Ott ha definito «ontologia cristologica» o «cristologia ontologica».3

Nel presente scritto si intende dapprima analizzare il superamento, ormai acquisito dalla maggioranza degli studiosi bonhoefferiani, dell’interpretazione radicale attraverso la riconsiderazione della questione della frattura, della centralità della cristologia e del legame che unisce l’Etica alle lettere dal carcere. Di seguito si propone, alla luce della cronologia stabilita dall’ultima edizione critica dell’Etica, un’interpretazione unitaria dell’opera, che metta in rilievo la cristologia come chiave ermeneutica della riflessione bonhoefferiana, l’inesistenza di una vera rottura con la produzione precedente e la connessione di questo scritto con Resistenza e resa. Infine, si vuole definire il ruolo che la problematica etica in generale, e quindi l’Etica in particolare, ricopre nell’economia del pensiero di Bonhoeffer.

1. Il superamento dell’interpretazione radicale di Bonhoeffer

La causa che ha facilitato negli anni Sessanta-Settanta l’affermarsi dell’interpretazione «radicale» di Bonhoeffer è da ricercare senz’altro nel fatto che gli scritti che hanno inizialmente riscosso maggior interesse sono stati quelli dell’ultimo periodo (Etica e Resistenza e resa), con una predilezione particolare per le lettere dal carcere, dove Bonhoeffer sembrava aver raggiunto l’autentica maturità del suo pensiero. Spesso si è attribuito a questi scritti un valore autonomo, avulso dal cammino compiuto dalla riflessione bonhoefferiana, o si è sottolineata esclusivamente la loro novità nei confronti della produzione precedente, anche della stessa Etica. In questo modo si sono puntati i riflettori solo su quelle opere che per la forza degli eventi non hanno mai potuto raggiungere un’elaborazione sistematica sufficiente a render chiaro il pensiero dell’autore,4 che ha potuto così essere frainteso, ridotto e imprigionato in schemi teorici ad esso fondamentalmente estranei.

In virtù della frammentarietà delle riflessioni teologiche di Resistenza e resa, l’opera di Bonhoeffer ha acquistato le sembianze di un caleidoscopio, nel quale ciascuno ci ha visto qualcosa di diverso. Così il teologo tedesco è diventato vessillo e punto di riferimento delle più diverse correnti teologiche del secondo dopoguerra: «i bultmaniani e i barthiani lo interpretano come il prolungamento dei loro temi teologici. I discepoli di Tillich scoprono dell’affinità tra il “mondo adulto” e la “cultura teonoma”. Gli apostoli della teologia radicale trovano i loro fondamenti classici in Resistenza e resa. I secolaristi godono dell’anticlericalismo di Bonhoeffer. La cultura di massa si ispira alla vita e alla morte di questo martire».5 D’altra parte la medesima mancanza di compiutezza propria dell’ultimo Bonhoeffer suscita l’idea di un pensatore «visionario», illuminato da improvvise intuizioni che rimangono però necessariamente allo stato di abbozzo.6

Tra questi scritti e quelli precedenti è stata ravvisata una «cesura» (Zäsur), che ha fatto parlare addirittura di una sorta di conversione dalla Chiesa al mondo, che sarebbe maturata in Bonhoeffer durante gli anni della resistenza e venuta alla luce in carcere, con l’idea dell’autonomia del mondo.

1.1 La questione della frattura

Sulla teoria della frattura si impianta tutta l’opera interpretativa di H. Müller, pensatore di area marxista, autore della prima monografia su Bonhoeffer (Von der Kirche zur Welt, 19617). Egli parla di una «rottura epistemologica» ravvisabile nella lettera del 30 aprile 1944, dove per la prima volta Bonhoeffer si pone la domanda «che cosa sia veramente per noi, oggi, il cristianesimo, o anche chi sia Cristo» in un tempo ormai «completamente non religioso».8 Su questa linea è anche Mancini, benché smorzi notevolmente i toni, mostrando nella sua monografia che l’interpretazione secondo cui «Bonhoeffer non è stato “bonhoefferiano” se non a partire dall’aprile» del 1944 è «manifestamente forzata».9 Il riferimento di Mancini è in primo luogo ai teologi radicali di area inglese, i quali, pur avendo senz’altro il merito di aver ravvivato l’interesse per la figura di Bonhoeffer, come riconosce lo stesso Bethge nella sua biografia,10 hanno però ristretto la loro attenzione quasi esclusivamente alle lettere dell’aprile-agosto 1944.11

Non è mancato tuttavia tra gli interpreti di Bonhoeffer chi ha sostenuto la continuità del suo pensiero. Si tratta soprattutto di coloro che hanno messo in luce l’interesse ontologico della teologia di Bonhoeffer e hanno letto così le riflessioni degli ultimi mesi alla luce di tutta la produzione precedente, attribuendo particolare valore agli scritti del periodo accademico (Sanctorum Communio, Atto ed essere, i corsi universitari). A questo filone sono da ascrivere senz’altro la monografia di André Dumas, Une théologie de la réalité : Dietrich Bonhoeffer (1968)12 e gli studi di area tedesca non fioriti nell’ambito della cultura marxista.13

Gallas nella sua recente monografia sostiene che «il rapporto tra le lettere e i testi precedenti presenta […] un duplice aspetto: uno di continuità (prosecuzione del compito), e uno di discontinuità (novità della situazione)»;14 infatti, come scrive lo stesso Bonhoeffer, dal carcere si vedono «le stesse cose in modo molto diverso».15 La svolta di Bonhoeffer non starebbe, secondo Gallas, nell’introduzione di tematiche nuove all’interno della sua riflessione, poiché il tema della mondanità (e quelli ad esso collegati: la Mündigkeit, la Religionslosigkeit e l’interpretazione non-religiosa dei concetti biblici) ha «una presenza più antica». La «rivoluzione» di Resistenza e resa consiste piuttosto nel «dislocamento del centro di gravità del suo “impegno” dalla sfera ecclesiale a quella “mondana”». È una svolta che viene vissuta da Bonhoeffer prima che pensata. Le lettere del 1944 non sono altro che l’esplosione di questioni che provengono da un vissuto di sofferenza e di meditazione e raggiungono infine dopo un anno di prigionia, di «decantazione»,16 una chiarificazione tale da poter essere elevate dal piano personale a quello teologico. «La teologia, come actus reflexus, è preceduta dall’esistenza, cioè dalla decisione di affrontare una nuova prassi».17

Le affermazioni delle lettere del 1944 non costituiscono quindi una novità assoluta. Esse rappresentano piuttosto una diversa prospettiva sulle tematiche delle opere precedenti (il tema della Chiesa, quello della sequela e quello dell’etica cristiana), una prospettiva dettata dalla condizione esistenziale del teologo, congiurato e incarcerato in nome di un senso di responsabilità che lo portava ben lontano dalle posizioni della stessa Chiesa Confessante. In questo modo, pur considerando Resistenza e resa «l’effettivo vertice dell’opera di Bonhoeffer», Gallas assegna un’importanza fondamentale anche alle opere precedenti, in particolare sostiene la tesi che «a Sequela deve essere riconosciuto nell’evoluzione del pensiero di Bonhoeffer un posto diverso da quello che le è stato finora assegnato».18

Credo che in effetti la rivalutazione dell’importanza di Sequela, come di tutta la produzione del periodo di Finkenwalde, sia fondamentale per comprendere appieno lo sviluppo della riflessione bonhoefferiana dagli scritti accademici alle lettere dal carcere, ed in particolare per inquadrare l’Etica come momento di ripensamento del significato e delle forme della sequela alla luce della riscoperta del valore della «mondanità». È inoltre nel periodo del Kirchenkampf che il pensiero teologico di Bonhoeffer assume un’impostazione eminentemente “pratica”, dove le tematiche affrontate (la sequela, l’annuncio della Parola, il concetto di eresia) non hanno niente del dibattito accademico, ma provengono e sono rivolte unicamente all’attività pratica. Sulla base di questa concezione della teologia Bonhoeffer ha affrontato poi la questione della fondazione dell’etica cristiana e nella cella di Tegel è arrivato a sollevare le domande più spregiudicate. Ciò che lo spinge è un’urgenza pratica: «Dobbiamo rischiare di dire cose anche contestabili, se ciò permette di sollevare questioni di importanza vitale».19 Tale prospettiva, però, a ben vedere, ha radici ancora più lontane. Essa è frutto di quella «conversione» alla Bibbia che ebbe inizio nell’inverno del 1932, quando il giovane professore prese a tema del suo corso alla facoltà teologica di Berlino non un argomento di teologia sistematica, ma l’interpretazione teologica di Genesi 1-3.20

In conclusione mi sembra che il problema della continuità o della frattura si debba porre piuttosto nei termini della maturazione umana e teologica di Bonhoeffer, che senza dubbio attraversa diverse fasi, ma che non appare, né viene percepita da Bonhoeffer stesso, nei termini della discontinuità. Nella lettera del 22 aprile 1944 all’amico Bethge scrive:

Non devi farti troppe illusioni su di me, quando scrivi che questo periodo potrebbe significare molto per il mio vero lavoro, e che sei ansioso di ciò che poi avrò da raccontare e di ciò che ho scritto. Ho imparato tante cose nuove, questo è certo; ma non credo di essere cambiato molto. Ci sono persone che possono cambiare, e altre quasi per nulla. Credo di non aver mai avuto grandi cambiamenti; tutt’al più, al tempo delle prime impressioni che ho avuto all’estero, e sotto la prima consapevole impressione ricevuta dalla personalità del babbo. Allora ebbe luogo una svolta dal verbalismo alla realtà. Del resto credo che non cambi nemmeno tu. Evolversi è tutta un’altra cosa. Nessuno di noi ha conosciuto una rottura nella sua vita. Certo abbiamo chiuso di nostra iniziativa e consapevolmente con alcune cose, ma questo è ancora tutt’altra faccenda. E sicuramente nemmeno questo periodo, che sia tu che io stiamo vivendo, rappresenterà una rottura nel senso passivo del termine. In precedenza, ho sentito qualche volta nostalgia di una simile rottura. Oggi la penso diversamente. La continuità col proprio passato resta sempre un grande dono (RR, p. 344).

1.2 La centralità della cristologia

L’unità fondamentale del pensiero di Bonhoeffer, pur nella scansione delle diverse fasi, diviene poi chiara, se si legge l’intera sua opera attraverso la chiave ermeneutica della cristologia.

Alla cristologia è dedicato l’ultimo corso tenuto da Bonhoeffer all’università di Berlino nel Sommersemester 1933. Esso costituisce l’arco di volta della teologia bonhoefferiana, essendo alla fin fine tutti gli altri scritti bonhoefferiani, da Sanctorum Communio ad Atto ed essere, da Sequela all’Etica, nient’altro che una declinazione della questione cristologica di come si riveli nella realtà mondana la realtà di Cristo.

In Sanctorum Communio la realtà di Cristo si dà come presenza storica attraverso la Chiesa. La Chiesa è considerata sociologicamente come «comunità» e interpretata filosoficamente con la categoria hegeliana dello spirito oggettivo. Si tratta, però, di concetti usati strumentalmente, poiché la Chiesa non si costituisce a partire dagli uomini, ma solo Cristo è la «forma della Chiesa».21 Nello scritto sono ben visibili i due orientamenti teologici fondamentali, che costituiscono il retroterra della riflessione bonhoefferiana: quello liberale che tende ad interpretare il cristianesimo con le categorie filosofiche dell’hegelismo, e quello dialettico, che affida al primato della rivelazione il punto di partenza del discorso teologico. Così, se da una parte Bonhoeffer si sforza di dare spiegazione della realtà della Chiesa tramite la categoria filosofica dello spirito oggettivo e quella sociologica della «comunità», dall’altra rivendica perentoriamente a Cristo il fondamento di questa realtà empirico-storica. Non si tratta di una commistione arbitraria tra gli insegnamenti appresi alla facoltà di Berlino e la nuova e affascinante posizione della teologia dialettica. Quest’opera giovanile rivela invece come sin dal principio Bonhoeffer abbia avvertito il compito di andare oltre Barth, di superare le aporie in cui si incaglia il teologo svizzero, fecondando il suo pensiero con l’attenzione alla realtà storica propria della scuola liberale.22

Per quanto Sanctorum Communio costituisca uno dei tentativi più notevoli di analisi della realtà della Chiesa in ambito protestante,23 tuttavia lo stesso autore si rese conto che la questione non era risolta, ma rimandava ad un approfondimento ulteriore sul piano epistemologico-ontologico riguardo all’«essere-in-Cristo», quale vera essenza della Chiesa, dal momento che la definizione di questa attraverso la struttura sociologica della «comunità» o attraverso il concetto di spirito oggettivo risultava insufficiente a dare ragione della sua funzione mediatrice tra Dio e l’uomo.

In Atto ed essere il problema della mediazione, quindi della definizione dell’essere-in-Cristo e della Chiesa, è affrontato dal punto di vista gnoseologico-epistemologico. Si può dire che in questo scritto vengano approfondite le premesse metodologiche della riflessione teologica bonhoefferiana, tanto che l’opera è stata paragonata al Fides quaerens intellectum di Barth24 ed è stata considerata l’antecedente logico di Sanctorum Communio, sebbene sia un lavoro successivo alla tesi di dottorato. In Atto ed essere si considerano insufficienti per intendere la mediazione cristologica sia la prospettiva attualistica, che, inaugurata da Kant e portata alle estreme conseguenze dall’idealismo tedesco, si trova alla fine anche alla base della teologia barthiana, sia quella ontologica prospettata da Heidegger.25

Nel primato dell’atto, che diventa in Barth primato dell’atto di fede, Bonhoeffer vede il pericolo della ricaduta in quel soggettivismo che proprio la teologia dialettica aveva radicalmente contestato, sottolineando l’infinita differenza che separa Dio dal mondo e dalla stessa idea di Dio. D’altra parte la soluzione ontologica heideggeriana, benché avesse il merito di lasciare uno spazio effettivo a ciò che è al di là del soggetto, rimaneva incapace di dare ragione dell’«evento Cristo», dal momento che definiva l’apertura all’Essere come una possibilità dell’esserci e rendeva così sostanzialmente inutile la rivelazione.26 Fondando il rapporto finito-Infinito sull’essere-di-Cristo, invece, si evita sia la dissoluzione dell’uomo nell’atto di fede, sia l’inglobamento del Totalmente Altro tra le possibilità esistenziali.

La risposta cristologica, però, per non cadere a sua volta nell’attualismo o nell’ontologismo sistematico, deve chiarire come si compia l’opera mediatrice di Cristo per l’uomo reale nel corso della storia; in altri termini si tratta del problema della partecipazione all’essere-di-Cristo. Bonhoeffer rimanda ancora una volta alla Chiesa, che è una sintesi di atto ed essere, venendo costituita dall’atto di adesione dei credenti, ma possedendo una propria realtà oggettiva e storica.

Nel periodo del Kirchenkampf l’attenzione di Bonhoeffer si accentra sull’atto di adesione personale alla Chiesa di Cristo e sui confini concreti di questa più che sull’analisi ecclesiologica. Il tema dominante è quello della sequela, intesa come risposta personale alla chiamata di Dio, che si realizza nella vita comunitaria ed è manifestazione della stessa vita di Cristo. Le due opere principali di questo periodo (Sequela e Vita comune) sono stati solitamente considerate libri legati all’attività pastorale, estranei alla riflessione teologica intrapresa negli scritti accademici. In realtà essi si collocano su una linea di continuità rispetto allo sviluppo della teologia bonhoefferiana e possiedono un solido impianto teoretico, benché esso rimanga per lo più nascosto.27 C’è solo da rilevare un cambiamento di prospettiva, dovuto al prevalere delle motivazioni pratico-organizzative su quelle teoretico-speculative in conseguenza dell’abbandono dell’insegnamento accademico per la completa dedizione alla causa della Bekennende Kirche.28

Il sostanziale fallimento della Chiesa Confessante di fronte al totalitarismo determinò una svolta nella riflessione bonhoefferiana. Quando anche il possesso della rote Karte, quale segno di adesione alla Chiesa confessante, non fu più garanzia di vera sequela, quando apparve chiaro al giovane pastore che essere nella Chiesa non coincideva più, nella Germania nazista, con l’essere-in-Cristo, la prospettiva si spostò dall’essere-Chiesa e prender-parte-alla-Chiesa all’agire cristiano nel mondo. Nello spazio etico Bonhoeffer vide la realizzazione dell’essere-in-Cristo ovvero della mediazione tra l’Eterno e la storia, di cui considerava prima unico luogo la Chiesa. La questione cristologica gli si presentò come questione etica. Ma questo risulterà più chiaro in seguito all’analisi che si svolgerà in seguito.

Nel corso sulla cristologia del 1933 viene posta direttamente a tema la questione della realtà stessa di Cristo. Sulla scorta della definizione giovannea Cristo è presentato come il Logos strutturante l’intera realtà umana. Tale Logos, però, in contra sto con la tradizione metafisica classica, «non è idea», ma «persona». Per questo non si rende conoscibile attraverso la domanda sul «come», che è «la domanda sull’immanenza», ma solo attraverso la domanda sul «Chi», che è «la domanda sulla trascendenza».29 In tal modo esso si dà come «contro-logos», che si sottrae definitivamente all’ordinamento stabilito dal logos umano: «la domanda «Chi sei?» è la domanda della ragione detronizzata, destituita».30 Di conseguenza, se «il problema cristologico è per sua natura ontologico», ciò significa che «il suo scopo consiste nell’elaborare la struttura ontologica del chi, senza intercorrere nella Scilla della domanda sul come e nella Cariddi della domanda sul che».31

La definizione di Cristo come «struttura della realtà» è imprescindibile dalla determinazione di Cristo come «persona»: solo sulla base della pregiudiziale personalistica, infatti, si può intendere «struttura» non come «qualcosa di chiuso in sé e avente in sé le basi per la sua spiegazione»,32 cosa da tener presente per comprendere correttamente l’idea di Gestaltung che sta alla base dell’Etica e di cui si parlerà in seguito. D’altra parte la struttura ontologica della realtà personale si dà attraverso due dimensioni fondamentali: quella storica e quella relazionale. Considerare la fondazione ontologica della realtà alla luce di queste due dimensioni significa superare alla radice il dualismo ideale-reale.

È proprio lo sforzo per il superamento del pensiero dualistico che costituisce la matrice comune dei saggi dell’Etica e delle riflessioni di Resistenza e resa. Detto in altri termini gli scritti dell’ultimo periodo si avvicinano tra loro e si differenziano da quelli precedenti per l’assunzione di una prospettiva più attenta alla mondanità, alla dimensione «profana» della vita, che non viene più sentita in concorrenza con quella «sacra», religiosa e cristiana, perché appartenente alla medesima realtà cristologica.

1.3 Il legame tra l’Etica e Resistenza e resa

Durante l’elaborazione dell’Etica, Bonhoeffer cerca un confronto con il mondo «senza Dio» che non si risolva nell’arroccamento in uno spazio «sacro». Egli sostiene che «non esistono due realtà, ma una sola, e precisamente la realtà di Dio che in Cristo si è rivelata nella realtà del mondo. Se siamo partecipi di Cristo, ci troviamo al tempo stesso nella realtà di Dio e in quella del mondo. La realtà di Cristo racchiude in sé la realtà del mondo».33 Alla luce di questa considerazione, il teologo tedesco può interpretare «l’alleanza» tra i cristiani e i non-credenti, difensori dei valori umanistici minacciati dalla barbarie nazista, non come «un’operazione tattica e un’alleanza di convenienza destinata a sciogliersi al termine della lotta», ma come «un ritorno alle origini» dei «figli della Chiesa, divenuti indipendenti e allontanatisi da lei».34 In questo modo, però, a ben vedere, il mondo non viene ancora considerato «nelle sue posizioni più forti»,35 non si è ancora ammessa l’autentica indipendenza degli uomini contemporanei, che ormai se la sanno cavare anche senza «l’ipotesi di lavoro Dio» e, quindi, non hanno affatto bisogno della Chiesa. Vi è quindi, nel giudizio sul mondo secolarizzato, una certa differenza tra l’Etica e Resistenza e resa, ben visibile se si mettono a confronto due testi come Eredità e decadenza e la lettera del 16 luglio 1944 (o dell’8 giugno 1944).

Nel saggio raccolto nell’Etica Bonhoeffer vede sotto il segno della decadenza la recente storia dell’Occidente, e ascrive tale decadenza alla perdita del senso dell’incarnazione, cioè della fondazione cristologica del reale, perdita alla quale egli stesso riconosce non essere estraneo il movimento riformatore. L’uomo, perduto il fondamento, è costretto ad assolutizzarsi, ma in questo modo non ha potuto evitare di cadere nell’abisso del nulla. Il fenomeno del nichilismo costituisce l’ultima tappa del cammino dell’Occidente e insieme l’altra faccia del processo di «divinizzazione dell’uomo».36

Le lettere dal carcere presentano rispetto a questo passo dell’Etica un’evidente diversità di tono e di giudizio. Non si parla di un «nulla fatto Dio», che col suo «empio alito» svuota di essenza tutto ciò che esiste, riducendolo ad un involucro privo di significato, ma di un mondo «divenuto maggiorenne» (die mündig gewordene Welt), «che ha raggiunto la consapevolezza di se stesso e delle leggi che regolano la sua vita».37 La descrizione del processo che conduce alla maggiore età del mondo è improntata ad un ottimismo di tipo umanistico e illuministico:

[…] quella che porta all’autonomia del mondo è una grande evoluzione. In teologia, anzittutto Herbert di Cherbury, che è stato il primo ad affermare la sufficienza della ragione per la conoscenza religiosa. In morale: Montaigne e Bodin, che elaborano delle regole di condotta al posto dei comandamenti. In politica: Machiavelli, che svincola la politica dalla morale comune e fonda la dottrina della ragion di stato. Più tardi molto diverso da lui nei contenuti, ma conforme per quanto riguarda la prospettiva della autonomia della società degli uomini, H. Grotius, che formula il suo diritto naturale come diritto dei popoli, valido «etsi deus non daretur», «anche se Dio non esistesse». Infine il contributo conclusivo della filosofia: da una parte il deismo di Descartes: il mondo è un meccanismo che procede autonomamente, senza l’intervento di Dio; dall’altra il panteismo di Spinoza: Dio è la natura. Kant in sostanza è deista, Fichte ed Hegel sono panteisti. Ovunque la meta del pensiero è l’autonomia dell’uomo e del mondo. (Nelle scienze della natura la cosa comincia evidentemente con Nicolò Cusano e con Giordano Bruno e la loro dottrina — «eretica» — dell’infinità del mondo. Sia il cosmo antico che il mondo creato secondo la concezione medioevale sono finiti. Un mondo infinito — comunque esso sia concepito — si basa su se stesso, «etsi deus non daretur». La fisica moderna invero rimette in discussione l’infinità del mondo, senza però con questo ricadere nel concetto antico della sua finitezza. Dio inteso come ipotesi di lavoro morale, politica, scientifica, è eliminato, superato; ma lo è ugualmente anche come ipotesi di lavoro filosofica e religiosa (Feuerbach!). Rientra nell’onestà intellettuale lasciar cadere questa ipotesi di lavoro, ovvero rimuoverla quanto più completamente possibile. Uno scienziato, un medico ecc. edificanti sono come degli ermafroditi (RR, p.439; 16 luglio 1944).38

È evidente che mentre in Etica si interpreta il corso della storia occidentale come una «decadenza», qui lo si legge secondo la categoria del progresso.

Il motivo di questo cambiamento di prospettiva non sta tanto nella conversione di Bonhoeffer al mondo, come è stato sostenuto da Müller e da altri. Si tratta piuttosto del fatto che, mentre nell’Etica l’accento cade sull’incarnazione, quale momento fondante dell’unità di Dio e del mondo in Cristo e pertanto condizione del realizzarsi del principio cristologico nella storia, in Resistenza e resa, invece, si sottolinea l’assenza di Dio e l’autonomia del mondo, quindi l’attenzione è teologicamente accentrata sulla croce, quale evento che segna il «morire» di Dio, il suo abbandono del mondo, la rinuncia alla propria divinità, intesa nel senso dell’onnipotenza. Ma come non può esistere per Bonhoeffer una teologia dell’incarnazione senza una teologia della croce,39 così non si può parlare della presenza di Dio nel mondo senza ricordarsi della sua assenza, cioè senza scoprire che la sua presenza è presenza vera, autentica, solo nell’assenza, perché solo così si manifesta pienamente l’assoluta alterità del Divino. In questo modo l’autonomia del mondo e il rispetto di tale autonomia, in altre parole la fedeltà alla terra predicata dal profeta Zarathustra, di cui troviamo una forte eco nelle lettere dal carcere più che altrove, diviene la condizione della vera teologia, cioè del vero discorso su Dio, sul Totalmente Altro.

2. La nuova edizione critica dell’Etica

La stretta connessione tra gli scritti raccolti nell’Etica e le tematiche trattate nelle lettere dal carcere risulta a mio parere particolarmente evidente nell’ultima edizione critica dell’Etica. Qui, infatti, sulla base di ricerche svolte sui manoscritti del teologo berlinese nel corso degli anni Ottanta, viene dimostrata una sistemazione cronologica dei testi alquanto diversa rispetto a quella proposta da Bethge a partire dalla sesta edizione (1962). Questo nuovo ordine induce ad una nuova lettura dell’opera, che appare ora non più interpretabile secondo lo schema elaborato da Müller (dalla Chiesa al mondo), un criterio interpretativo che, pur con i dovuti «distinguo», viene di fatto assunto anche da Bethge.40

2.1 L’Etica di Bonhoeffer: confronto tra l’edizione del 1962 e l’edizione critica del 1992

Per chiarire ulteriormente la novità costituita dalla recente edizione critica dell’Etica, riporto di seguito la ricostruzione dell’ordine cronologico dei diversi manoscritti bonhoefferiani secondo l’edizione curata da Bethge nel 1962 (pubblicata in traduzione italiana nel 1969) e secondo l’edizione critica curata da I. Tödt, H.E. Tödt, E. Feil e C. Green, uscita nel 1992 (in traduzione italiana nel 1995) come 6º volume della collana DBW:

Etica (edizione italiana 1969)

  1. L’amore di Dio e lo sfacelo del mondo (1939-1940)
  2. Chiesa e mondo (idem)
  3. Funzione formativa dell’etica (settembre 1940)
    • Eredità e decadenza
    • Colpa, giustificazione e rinnovamento
  4. Le cose ultime e penultime (novembre 1940 — febbraio 1941)
    • Il «naturale»
  5. Cristo, la realtà e il bene (probabilmente estate 1941)
  6. La storia e il bene (estate 1941 — inverno 1941-42)
    • La struttura della vita responsabile
    • Il luogo della responsabilità
  7. Il fatto «etico» e il fatto «cristiano» come tema (inverno 1942-43)
    • Il comandamento concreto e i mandati divini

Etica (edizione critica italiana 1995)

  • I periodo (estate 1940 — 13 novembre 1940)
    • Cristo, la realtà e il bene. Cristo, chiesa e mondo
    • Etica come conformazione
    • Eredità e decadenza…41
  • II periodo (17 novembre 1940 — 22 febbraio 1941)
    • Le cose ultime e penultime
    • La vita naturale…
  • Intermezzo (aprile 1941 — fine 1941)
    • … Eredità e decadenza
    • Colpa, giustificazione redenzione
    • Inserzione in Cristo, la realtà e il bene
  • III periodo (inizio 1942 — estate 1942)
    • La storia e il bene (prima redazione)
    • La storia e il bene (seconda redazione)
  • IV periodo (estate 1942 — fine 1942)
    • L’amore di Dio e la dissoluzione del mondo
    • Chiesa e mondo I
    • Sulla possibilità della Chiesa di rivolgere la parola al mondo
  • V periodo (inizio 1943 — 5 aprile 1943)
    • Il fenomeno «etico» e il fenomeno «cristiano» come tema
    • Il comandamento concreto e i mandati divini

Non mi soffermo nell’analisi delle motivazioni che hanno portato a questo riordinamento delle schede bonhoefferiane relative all’Etica,42 credo però che sia opportuno fare alcune osservazioni.

Innanzi tutto è della massima importanza che «Cristo, la realtà e il bene» risulti il primo testo redatto da Bonhoeffer, e non «L’amore di Dio e lo sfacelo del mondo», che invece appare tra gli ultimi. In questo modo non è più sostenibile la tesi di uno spostamento dell’interesse del teologo luterano dai temi biblici a quelli «mondani». La prospettiva biblica si mostra invece intrecciata a quella «mondana».

Il fatto, poi, che Bonhoeffer ritorni a distanza di tempo su alcune parti (ad esempio Eredità e decadenza, La vita naturale e soprattutto Cristo, la realtà e il bene) fa cadere l’ipotesi formulata per l’edizione del 1962 secondo cui gli scritti dell’Etica sarebbero da considerarsi una serie di abbozzi, di piste di ricerca che il teologo berlinese ha nel corso del tempo abbandonato.43 In realtà i diversi testi costituiscono una trama unitaria, che appare secondo angolature diverse. Questa soluzione, d’altra parte, trova riscontro anche da un confronto con la genesi di altre opere di Bonhoeffer, come ad esempio Sequela, che, secondo la testimonianza di Bethge, era stata composta per la fusione di singoli studi su un determinato argomento.

L’unità dell’opera appare infine evidente, se si assume come criterio ermeneutico proprio lo scritto iniziale Cristo, la realtà e il bene. Infatti, «quando alla Conferenza plenaria delle sezioni del Comitato internazionale Bonhoeffer, svoltasi nel giugno 1988 ad Amsterdam, fu presentata la successione cronologica nuovamente ricostruita della composizione dei manoscritti, Bethge sottolineò, nel suo saluto al pubblico, che ora, come spesso avviene in Bonhoeffer, il preludio, il manoscritto Cristo, la realtà e il bene […] contiene in fondo in sé già tutto quello che seguirà; l’etica alla luce dell’unica realtà in Cristo».44

Sulla base di questo criterio ermeneutico propongo di seguito una lettura dell’opera bonhoefferiana.

2.1 L’identificazione del bene e della realtà in Cristo

Cristo, la realtà e il bene, scritto iniziale dell’Etica, che porta il sottotitolo Cristo, Chiesa e mondo,45 mostra la differenza fondamentale tra l’etica cristiana e le altre etiche: mentre la prima è ancorata alla realtà del mondo sulla base del fondamento cristologico, le altre forme di morale prendono le mosse da una qualche norma o valore esistenti in una dimensione ideale spesso in contestazione con la realtà del mondo. Per l’etica cristiana, a differenza che per il razionalismo etico, il bene non è «la concordanza tra un criterio posto a nostra disposizione — dalla natura o dalla grazia — e l’esistente da me indicato come realtà, ma è la realtà e precisamente la realtà stessa vista e conosciuta in Dio».46 Il bene è in ultima istanza la realtà rivelata da Cristo, non un’idea o un ideale con valore normativo.47

Nella rivelazione si supera il dualismo ideale-reale, che rende il problema etico appunto un problema di «applicazione». Ma tale superamento è reso possibile in ultima analisi dal superamento della prospettiva soggettivistica, da cui nasce sia il dualismo metafisico ideale-reale, sia quello gnoseologico soggetto-oggetto. Questo è ben chiaro a Bonhoeffer, quando scrive che «ove il problema etico si presenta sostanzialmente come una ricerca del modo di essere personalmente buono e di fare il bene, lì si è già deciso che io e il mondo sono le realtà ultime»,48 ovvero che soggetto e oggetto, mondo ideale e mondo fisico costituiscono gli elementi essenziali del reale. Nella prospettiva etica cristiana, invece, la realtà ultima e originaria è Dio, considerato non «a sua volta un’idea, con cui sublimare il mondo esistente»,49 ma come rivelazione ab extra, secondo l’impostazione barthiana. L’idea è posta in essere dal soggetto, che nella proiezione di sé perde la propria unità, mentre la rivelazione incontra il soggetto e nell’incontro lo costituisce come realtà.

Naturalmente il concetto bonhoefferiano di «realtà» è ben diverso da quello empirico-positivistico: «il concetto di realtà soggiacente all’etica positivistica è il concetto volgare dell’empiricamente constatabile»;50 il concetto di realtà alla base dell’etica cristiana, invece, è quello di un tutto contenuto e sostenuto da Dio, e «il luogo in cui la questione della realtà di Dio così come quella della realtà del mondo vengono contemporaneamente risolte è contraddistinto unicamente dal nome di Gesù Cristo».51 Così, mentre l’etica positivista, nell’eliminare completamente il concetto di norma, finisce per approdare ad un «totale abbandono al dato di circostanza»,52 «l’etica cristiana studia ora come questa realtà di Dio e del mondo, data in Cristo, diventi realtà (Wirklichwerden) nel nostro mondo».53

In questa prospettiva Bonhoeffer introduce la dottrina dei mandati, i quali secondo la Scrittura sarebbero quattro: «il lavoro, il matrimonio, l’autorità, la chiesa».54 Essi rappresentano gli spazi stabiliti da Dio per concretizzare la realtà di Cristo. Naturalmente la dottrina dei mandati presuppone il superamento della divisione della sfera mondano-profana da quella spirituale-religiosa e la concezione di un’unica realtà sul fondamento dell’unica realtà umana e divina di Cristo.55

Alla luce del fondamento cristologico dell’etica cristiana e del superamento della «concezione in due sfere» l’agire etico si presenta come un conformarsi a Cristo. Etica come conformazione (Ethik als Gestaltung), infatti, si intitola il secondo abbozzo, appartenente allo stesso periodo del primo. In esso l’autore critica il «formalismo» dell’etica dei principi, il cui prototipo è rintracciato nella figura di Don Chisciotte, così come rifiuta il vitalismo e la «morale del compromesso», che viene a suo avviso sancita dal nichilismo. Entrambe queste posizioni sono generate dall’errore di considerare la realtà come staccata da Dio: la prima perché vede nella realtà solo il male da combattere in nome del principio divino, la seconda perché considera impossibile la realizzazione dell’ordine divino e si adegua a questa condizione. In entrambi i casi si finisce inevitabilmente per cadere nella contrapposizione tra il bene e la vita reale.

La soluzione prospettata dal cristianesimo è per Bonhoeffer nel «miracolo di Dio che esiste nella storia», cioè in Gesù Cristo, colui nel quale «Dio e la realtà del mondo sono riconciliati fra di loro, in cui Dio e il mondo sono divenuti una cosa sola».56 Sulla base del fondamento cristologico, dunque, l’etica diviene per i cristiani un processo formativo, o meglio di «conformazione» (Gestaltung) alla figura (Gestalt) di Cristo, divenuto uomo, morto e risorto. Ma per l’uomo divenire come Cristo non significa trasformarsi «in una forma a lui estranea, nella forma di Dio, bensì nella forma sua propria, a lui appartenente ed essenziale». Così «l’uomo diventa uomo perché Dio è diventato uomo».57

Il fatto che «Cristo non elimina la realtà umana in favore di un’idea, che esigerebbe di essere attuata contro il reale, ma, al contrario, la mette in vigore, la conferma», poiché «egli stesso è l’uomo reale e così il fondamento di tutta la realtà umana»,58 permette all’etica cristiana di essere «un’etica concreta», che non pretende di affermare «ciò che sarebbe buono una volta per tutte», ma «come Cristo prenda forma tra noi oggi e qui»59 attraverso il conformarsi dell’uomo a Cristo nelle situazioni concrete della vita. L’etica cristiana, quindi, è un’etica della situazione, nella quale gioca un ruolo decisivo la responsabilità.

A conclusione del capitolo si trova il frammento Eredità e decadenza,60 nel quale si dà un breve compendio della storia occidentale, la quale, in contrapposizione ad ogni mitologizzazione, non è considerata come «portatrice transeunte di valori eterni, bensì proprio grazie alla vita e alla morte di Gesù Cristo diventa per la prima volta temporale»,61 acquista cioè uno spessore ontologico autonomo, garantito dal fondamento cristologico, che, essendo di natura personale, contempla appunto in sé, come si è accennato, la dimensione temporale, quale dimensione reale del suo essere. La conservazione di questa dimensione è la questione dell’eredità storica, che può essere assicurata appunto solo dal prender forma di Cristo nel mondo occidentale e dal conformarsi di questo a Cristo.

Il fatto che i contemporanei si trovino a fare i conti con il fenomeno del nichilismo, deve spingere l’Occidente a recuperare il significato profondo della sua storia, cioè il suo legame con Cristo, la cui esistenza come corpo fisico e come corpo sociale nella Chiesa ha dato spessore ontologico alla categoria storico-temporale. Il nichilismo occidentale si presenta nei suoi aspetti essenziali come il venir meno di questo statuto ontologico della storia, e ciò si manifesta nella perdita dell’«eredità storica», e, in stretta connessione con ciò, nella «profonda smemoratezza di questo tempo», per cui «non esiste né futuro né passato», ma «esiste solo più l’istante salvato dal nulla e la volontà di afferrare quello seguente».62 Ciò che può salvare dalla «definitiva caduta nell’abisso» sono solo due cose: «il miracolo di un nuovo risveglio della fede e la potenza che la Bibbia chiama “quello che trattiene”, katèchon (2 Ts 2, 7), cioè il potere d’ordine, dotato di grande potenza fisica, che sbarra con successo il passo a coloro che stanno per cadere nell’abisso. Il miracolo è l’azione salvifica di Dio che irrompe dall’alto, aldilà di tutto ciò che è calcolabile e verosimile […] “Ciò che trattiene” è il potere che diviene efficace all’interno della storia grazie al governo di Dio sul mondo e pone un limite al male. “Colui che trattiene” non è direttamente Dio, non è senza colpa, Dio però si serve di lui per preservare il mondo dalla distruzione».63 Non è quindi la potenza di un principio metafisico a salvare dal nichilismo, ma l’agire di Cristo nella storia, sia esso legato alla Chiesa e alla dimensione della fede, sia esso dato tramite il veicolo degli «elementi di ordine» come «il diritto, la verità, la scianza, l’arte, la cultura, il senso di umanità, la libertà, l’amor patrio».64

2.3 Il diritto ad esistere delle realtà mondane o «penultime»

Assicurato il ruolo delle forze mondane per il superamento della crisi nichilista, che coinvolge questo secolo, Bonhoeffer approfondisce il loro valore e il loro significato intrinseco nel saggio Le cose ultime e penultime,65 dove assegna diritto d’esistenza alle realtà penultime, cioè alle realtà naturali e storiche, che cadono al di qua del giudizio ultimo.

La dottrina di Lutero e la sua rivisitazione barthiana avevano puntato tutta l’attenzione sulla grazia divina come evento di rottura nei confronti della storia e della natura, così da vedere il tempo preparatorio principalmente nel suo valore negativo: esso è il tempo della colpa, la cui redenzione può venire solo dall’intervento esterno di Dio. Non c’è su questa terra una via da seguire per giungere alla salvezza, non c’è un «metodo», qualsiasi via è in se stessa condannata:

Fu necessario percorrere una via, fu necessario percorrere in tutta la sua lunghezza la via delle cose penultime, ognuno dovette cadere in ginocchio sotto il peso di tali cose — e tuttavia la parola ultima non fu poi il coronamento, bensì la rottura completa con il penultimo (ODB 6, p.124).

E tuttavia, osserva Bonhoeffer, «bisogna percorrere una via, anche se nessuna via porta a questo traguardo, ed essa va percorsa sino in fondo, cioè fin dove Dio le pone termine».66 Insomma «il penultimo continua perciò a sussistere anche se è completamente superato e abolito dall’ultimo».67 Vi è quindi un valore dialettico insito nelle realtà terrene:

[…] bisogna ora parlare anche delle cose penultime, non come se esse avessero un loro proprio valore, ma per mettere in luce la loro relazione con l’ultimo. Per amore di questo bisogna parlare del penultimo (ODB 6, p.125).

D’altra parte già la definizione di realtà penultima implica intrinsecamente il riferimento alla realtà ultima, dal momento che «una cosa diventa penultima solo attraverso l’ultima».68 Pertanto «il penultimo va salvaguardato per amore dell’ultimo».69 In concreto due cose costituiscono le realtà penultime: «essere uomo ed essere buono»,70 cioè la dimensione naturale e quella etica, che sono state messe in crisi dal principio riformatore della sola gratia.

La questione della dimensione naturale viene analizzata in La vita naturale, uno scritto che nella nuova edizione ha guadagnato una propria autonomia, mentre nell’Etica del 1962 appariva come appendice a Le cose ultime e penultime.71 Bonhoeffer parte dalla considerazione che «il concetto di naturale è caduto in discredito nell’etica protestante evangelica». Ciò ha avuto come conseguenza «il suo abbandono all’etica cattolica».72 In questo modo il pensiero etico protestante non ha potuto dire più nulla sui problemi pratici della vita naturale. La perdita del valore positivo del concetto di «naturale», cioè dell’essere-uomo, ha determinato l’annullamento del campo etico, quale campo di discussione dei problemi relativi all’agire di questo essere; infatti, se il criterio dell’agire non risiede più nell’«essere-secondo-natura»,73 ma è riposto nel mistero del giudizio divino, ogni discorso umano a riguardo diventa insignificante.

Recuperare il valore del «naturale», però, non significa per Bonhoeffer disconoscere la sua realtà di peccato, bisognosa della giustificazione divina, bensì ritrovare quella dimensione di «indipendenza e di sviluppo autonomo» che rende possibile una «relativa libertà», quindi uno spazio per il discorso etico.

La definizione formale dell’ambito naturale, in quanto realtà penultima, si dà a partire dalla realtà ultima di Cristo: «il naturale è ciò che, dopo la caduta, è orientato alla venuta di Gesù Cristo».74 La conoscenza dell’ambito naturale, invece, in nome della sua indipendenza,75 è fornita dalla ragione (Vernunft) umana, la quale «non è un principio conoscitivo e ordinatore, superiore al naturale, presente nell’uomo, ma è anch’essa parte di questa forma della vita che è stata conservata», cioè ne condivide la sorte di decadenza nel peccato, e appunto per questo è in grado di percepirla (vernehmen). In tal modo viene riguadagnata dal protestante Bonhoeffer una dignità della ragione priva, però, di tentazioni assolutizzatrici, che richiama fortemente il pensiero illuminista.

Sulla linea di un recupero delle istanze del secolo dei lumi vengono ribaditi i «diritti della vita naturale», che sono presentati da Bonhoeffer nei termini del diritto romano suum cuique, a ciascuno il suo.76 Essi riguardano in primo luogo il diritto alla vita fisica;77 in una seconda parte, di cui è rimasto solo l’abbozzo, si doveva invece parlare dei diritti della vita della mente.78

2.4 Dimensione storica del bene e vita responsabile

L’esigenza di vedere nell’etica cristiana la realizzazione della realtà di Cristo e la volontà di conservare al tempo stesso il valore autonomo delle «cose penultime» si rispecchiano in La storia e il bene, considerato da Mancini il «saggio più alto dell’Etica».79 Qui la connessione prospettata tra questione morale e realtà si traduce nel legame tra bene e vita storica, essendo questa la realtà propriamente umana nella quale si inserisce il problema dell’agire:

Non ci chiediamo dunque che cosa sia bene in sé, ma che cosa sia bene nella vita così come è, per noi che viviamo. […] La questione del bene si pone e si decide in ogni situazione determinata eppure incompiuta, unica eppure già transeunte della nostra vita, in ogni complesso di rapporti viventi che ci uniscono a uomini, cose, istituzioni e potenze, ovvero nella nostra vita storica. Il problema del bene è inseparabile da quello della vita e della storia (ODB 6, p.214).

Il rifiuto della concezione astratta della vita etica, fondata sull’idea di bene in sé, consente di evitare sia l’«entusiasmo fanatico», cioè la trasformazione della legge o del principio morale «in un Moloch a cui si sacrifica interamente la vita e la libertà», sia l’individualismo etico, cioè la riduzione del problema etico «alla sfera puramente privata» della «propria fedeltà ai principi senza riguardo all’altro uomo».80

La critica all’ideale astratto del bene, sentito come «qualcosa di estraneo, di inautentico, di artificioso, di fantastico e per di più di oltremodo tirannico»,81 è motivata naturalmente sulla base del fondamento cristologico. Se alla fine per Bonhoeffer «essere buoni significa “vivere”»,82 cioè se il bene si identifica con la vita, è perché Cristo ha detto: «Io sono la vita», e la vita di Cristo è una vita storica.83 La risposta all’appello di Cristo alla sequela è contenuta nella vita stessa e precisamente nella vita responsabile.84

A questo punto Bonhoeffer traccia la struttura della vita responsabile, ponendo il problema etico in termini ben lontani dal linguaggio biblico, come l’autore stesso rileva. «La mutata problematica etica esige una mutata terminologia».85 L’uso del linguaggio segue, quindi, l’impostazione fondamentale di adesione alla realtà storica, vista come luogo della rivelazione, benché Bonhoeffer si renda conto del «pericolo di perdere così di vista la sostanza della questione, pericolo legato ad un ampliamento della terminologia».86

«Il vincolo della vita con l’uomo e con Dio» e la «libertà della vita personale» sono intrecciate in modo tale che «è questo suo legame con l’uomo e con Dio a porre la vita nella libertà della vita personale».87 «Il vincolo assume la forma della sostituzione vicaria e della adeguatezza alla realtà, la libertà si manifesta nell’ascrivere a se stessi la propria vita e azione e nel rischio della decisione concreta».88 «Sostituzione vicaria» (Stellvertretung) sta ad indicare l’assunzione della responsabilità dell’azione in luogo di un altro. L’esempio del padre, dell’uomo di stato o del dirigente mostra «nella maniera più chiara» come «la responsabilità poggi sulla sostituzione vicaria». Tale concetto fa crollare «la finzione che il soggetto di tutto il comportamento etico sia il soggetto isolato». La sostituzione vicaria tra gli uomini è immagine dell’essere di Cristo, il quale «è il responsabile per eccellenza», avendo vissuto «solo come colui che ha assunto e porta in sé l’io di tutti gli uomini»: «il suo vivere, fare, soffrire, nella loro interezza, furono sostituzione vicaria».89

Per «adeguatezza alla realtà» (Wirklichkeitsgemäßheit) si intende che il comportamento etico «non è stabilito in partenza e una volta per tutte, quindi in linea di principio, ma nasce con la situazione data». Questo comporta una presa di coscienza della realtà fattuale, che non è né «l’atteggiamento servile dinanzi ai fatti di cui parla Nietzsche», né «una opposizione di principio, una ribellione di principio». Invece «accettazione del fattuale ed opposizione ad esso sono indissolubilmente uniti nell’agire autenticamente adeguato alla realtà».90 La giustificazione cristologica di tale carattere dell’agire responsabile sta nel fatto che il Dio divenuto uomo è al tempo stesso il Crocifisso: l’incarnazione e la morte di Gesù sono il sì e il no di Dio alla realtà del mondo, la sua giustificazione e la sua condanna. Pertanto anche il cristiano deve disporsi nei confronti della realtà in un atteggiamento insieme di adesione e di condanna.

Dal momento che il mondo in Cristo non viene divinizzato, ma viene lasciato essere mondo con i suoi limiti, e quindi con la sua colpa, «la struttura dell’azione responsabile comporta la disponibilità a prendere su di sé la colpa», come ha fatto Cristo, il quale «diventa colpevole come colui che agisce responsabilmente nell’esistenza storica dell’uomo». L’assunzione di colpa è la forma più eclatante di sostituzione vicaria e al tempo stesso «comporta la libertà», una libertà che va al di là della libertà formale della coscienza, capace di scegliere tra il bene e il male. Essa è il superamento della legge in nome dell’amore.91 L’essenza ultima dell’atto responsabile è quindi l’amore e la sua condizione la libertà:

Responsabilità e libertà sono concetti correlativi. La responsabilità presuppone oggettivamente — non cronologicamente — la libertà, così come la libertà non può sussistere se non nella responsabilità. La responsabilità è la libertà dell’uomo data solo nel legame con Dio e con il prossimo (ODB 6, p. 247).

La libertà dell’azione responsabile è resa possibile in ultima istanza dalla non conoscenza del bene. Per questo essa sfocia paradossalmente in un atto di obbedienza e di affidamento a Dio: «Il bene come azione responsabile viene compiuto nella non-conoscenza del bene, affidando l’azione divenuta necessaria e tuttavia (e proprio per questo!) libera a Dio» (ODB 6, p. 248). È in nome di questa guida divina che l’uomo può andare anche al di là della coscienza, la quale, d’altra parte, è istanza naturale, legata alla caduta:

Il richiamo della coscienza nell’uomo naturale è il tentativo dell’io di giustificare se stesso e la propria coscienza del bene e del male davanti a Dio, davanti agli uomini e davanti a se stesso e di poter persistere in tale autogiustificazione. […] La voce della coscienza ha dunque la propria origine e il proprio fine nell’autonomia del proprio io. Seguendo tale voce si cerca di realizzare da soli di volta in volta in maniera sempre nuova questa autonomia, che ha la sua origine, al di là della propria volontà e coscienza, in «Adamo».92

La coscienza rappresenta la ricerca dell’unità con se stessi dopo la perdita del rapporto con Dio, l’estremo tentativo di poter vivere scissi dal Creatore. Essa è in definitiva segno della hybris umana:

La coscienza naturale — foss’anche la più rigorosa — dimostra di essere l’autogiustificazione più empia (ODB 6, p. 243).

Tale tema viene ripreso nello scritto successivo, L’amore di Dio e la dissoluzione del mondo, che, anche per questo, mostra legami molto forti con La storia e il bene, benché nell’edizione del 1962 fosse stato ritenuto più vicino allo stile e alla sensibilità di Sequela, tanto da catalogarlo come il primo saggio dell’Etica in ordine cronologico.

2.5 L’etica cristiana come anti-etica

Dopo aver individuato nella vita responsabile il luogo della realizzazione del processo di Gestaltung, cioè del «prender forma tra noi qui e oggi» dell’essere di Cristo e nello stesso tempo del conformarsi a Cristo, secondo il principio della sequela, Bonhoeffer abbandona la terminologia «mondana» e riprende lo stesso tema in prospettiva biblica. Questo è, a mio parere, il senso della collocazione del capitolo L’Amore di Dio e la dissoluzione del mondo93 dopo La storia e il bene.

Simile è l’incipit dei due testi. Entrambi si aprono con una dichiarazione anti-idealistica:94 il primo in nome della concretezza della vita, il secondo alla luce del racconto biblico di Gn 1-3.95 Come in La storia e il bene è la vita nella sua totalità, che contiene il sì e il no di Dio sul mondo, a costituire l’autentico bene al di là della morale astratta delle norme, così in L’Amore di Dio e la dissoluzione del mondo l’annuncio cristiano dell’amore di Dio viene presentato come il superamento dell’astratta scissione tra bene e male propria di ogni etica:

La conoscenza del bene e del male sembra essere il fine di qualsiasi riflessione etica.96 Il primo compito dell’etica cristiana consiste nel superare tale conoscenza. […]

L’etica cristiana riconosce già nella possibilità della conoscenza del bene e del male la defezione dall’origine. In origine l’uomo conosce solo una cosa: Dio. […] La conoscenza del bene e del male è indice dell’avvenuta divisione dall’origine (ODB 6, p. 263s.).

La rottura con l’origine si manifesta attraverso la vergogna e la coscienza. La vergogna (die Scham) è il primo sentimento che si impadronisce dell’uomo dopo la caduta: «Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e ne fecero cinture» (Gn 3, 7). Anziché vedere Dio, l’uomo scorge se stesso, si rende conto della propria separazione da Dio e dagli altri, si rende conto di essere nudo, privo della protezione e del velo che Dio e l’altro uomo rappresentavano per lui: si trova denudato. La vergogna «è il ricordo non eliminabile che l’uomo ha della propria divisione dall’origine, il dolore per tale divisione e il desiderio impotente di revocarla».97 Il primo tentativo di annullare questo stato di scissione consiste nel coprirsi:

la vergogna cerca di velarsi per superare la divisione. Ma velarsi significa nel medesimo tempo confermare l’avvenuta divisione, per cui ciò non è in grado di rimediare al danno. […] Velarsi è necessario, perché ciò mantiene viva la vergogna e quindi il ricordo della divisione dall’origine, inoltre perché l’uomo deve ora appunto sopportarsi come il diviso, che egli è, e vivere nel nascondimento. Altrimenti egli tradirebbe se stesso.98

Se la vergogna è riflesso immediato della separazione, la coscienza morale (das Gewissen) ne è la seconda conseguenza: «mentre la vergogna ricorda all’uomo la sua divisione da Dio e dall’uomo, la coscienza è il segno della sua divisione da se stesso. La coscienza è più lontana dall’origine che non la vergogna; essa presuppone già la divisione da Dio e dall’uomo ed è il primo segnale della divisione da se stesso dell’uomo diviso dall’origine».99 Il carattere di divisione interiore si esprime attraverso la proibizione («Non devi… Non avresti dovuto…»), che da una parte divide la vita in cose permesse e cose vietate, dall’altra vuole, tramite l’obbedienza al divieto, restaurare l’unità interiore. Ma, anche quando sia restaurata tale unità, l’uomo rimane separato dalla propria origine: «che questa unità presupponga già la divisione da Dio e dall’uomo, che quindi al di là dell’inosservanza del divieto già lo stesso divieto provenga come appello della coscienza dalla divisione dall’origine, è cosa che non rientra nel campo esperienziale della coscienza. Perciò essa non ha a che fare con il rapporto dell’uomo con Dio e con l’altro uomo, ma con il rapporto dell’uomo con se stesso. Ma un rapporto dell’uomo con se stesso, sanciato dal rapporto con Dio e con l’altro uomo, esiste solo grazie al fatto che, nella divisione, l’uomo è divenuto uguale a Dio».100

L’uomo che segue con il massimo rigore la voce della coscienza è il fariseo. Ma tanto più egli è ligio all’osservanza del divieto, tanto più è incapace di cogliere la scissione, quindi di aprirsi alla grazia; per questo il rapporto tra Gesù e i farisei è inevitabilmente di scontro. Si tratta di uno scontro in cui si mettono in gioco due piani diversi: il piano della legge, fatto di alternative inconciliabili, e il piano della libertà, che si pone al di sopra di qualsiasi legge e che «appare necessariamente al fariseo come una distruzione di ogni ordinamento, di ogni pietà e di ogni fede». Per questo Gesù «è per il fariseo un nichilista».101

L’etica cristiana, quindi, in quanto fondata sull’insegnamento di Cristo, è un’anti-etica, che, scoprendo l’origine «umana, troppo umana» della coscienza, disconosce il valore assoluto della legge morale in essa inscritta. Il suo fine è di ricostituire l’unità perduta con Dio e con gli uomini attraverso l’amore e la libertà dalla legge, che sono, però, condizioni date dalla grazia, non ideali realizzabili dall’uomo. L’amore si attua nell’incontro con Cristo e, costituendo la massima espressione dell’unità dell’azione, in quanto nell’atto d’amore si annulla la distanza tra il proposito e la sua realizzazione, rappresenta il compimento dell’unità dell’essere umano inteso come soggetto d’azione. Anche qui l’uomo, conformandosi a Cristo nell’amore, non assume «una forma a lui estranea», ma «la forma sua propria, a lui appartenente ed essenziale», secondo le parole di Ethik als Gestaltung.102

Nell’ottica della sostanziale unità in Cristo dei valori umani e divini, mondani e religiosi, Bonhoeffer rivendica nello scritto Chiesa e mondo,103 rimasto incompiuto, la radice cristiana dei valori dell’Illuminismo, ai quali sostanzialmente si appellava il movimento di resistenza al nazionalsocialismo, con cui il teologo aveva cominciato a collaborare dal 1940.

Secondo l’esperienza autobiografica dell’autore proprio «negli anni in cui la realtà cristiana è stata sottoposta a tribolazione in ogni sua dimensione» si è avuta «una delle esperienze più sorprendenti»: «la consapevolezza di una specie di alleanza tra i difensori di questi valori minacciati e i cristiani», cosicché «ragione, cultura, senso di umanità, tolleranza, autonomia delle leggi — tutti questi concetti, che fino a poco tempo prima erano serviti da parole d’ordine contro la chiesa, contro il cristianesimo e contro lo stesso Gesù Cristo si trovarono d’un tratto sorprendentemente dislocati molto vicino all’ambito della realtà cristiana».104 E «non risponderebbe affatto alla realtà interpretare questa esperienza come se si fosse trattato di una mera alleanza tattica, quindi un’alleanza utilitaristica, destinata a dissolversi di nuovo con la fine della lotta». La realtà è piuttosto quella di un «ritorno all’origine».105 In altre parole l’alleanza tra mondo laico e mondo cristiano è la manifestazione storica del superamento della divisione in sfere, sacra e profana, in virtù dell’unità del reale in Cristo.

2.6 Parzialità dell’etica e integralità dell’essere-cristiano

Proprio in nome dell’unità cristologica del reale Bonhoeffer rivendica infine nell’ultimo scritto composto prima dell’arresto, Il «fenomeno etico» e il «fenomeno cristiano» come tema (Das «Ethische» und das «Christliche» als Thema), il coinvolgimento totale dell’uomo nel fenomeno cristiano di contro alla parzialità dell’esperienza propriamente morale.

Il fenomeno etico occupa uno spazio circoscritto all’interno della vita umana. Propriamente esso riguarda solo l’esperienza del limite: «Il “dovere”, per il suo contenuto e la sua esperienza, appartiene al campo di ciò che non è, sia perché esso non può essere, sia perché non è voluto»,106 segna insomma il limite invalicabile entro cui si deve tenere l’esistenza, non il contenuto dell’esistenza stessa. Quando il fatto etico diviene tema di riflessione significa che si è in periodi in cui si dà come necessaria una ridefinizione dei confini del vivere. A tali epoche devono fare seguito «tempi in cui ciò che è morale risulta di nuovo di per sé evidente» e «non ci si muove solo ai confini, bensì al centro e in seno alla ricchezza della vita quotidiana».107

Data tale limitatezza del discorso etico, Bonhoeffer mostra come esso per avere valore, non debba essere una «declamazione giovanilistica, presuntuosa e usurpatoria di principi etici», ma debba tener conto di considerazioni di tempo e di luogo, nonché fondarsi su un’autorità personale, cioè sull’autorità di una saggezza personale acquistata attraverso l’esperienza, ossia attraverso il confronto con la realtà concreta:

Certo, spesso nulla è possibile obiettare contro la giustezza delle astrazioni, delle generalizzazioni e delle teorie, che tuttavia manca loro il peso specifico delle enunciazioni etiche. Le parole sono giuste, ma non hanno alcun peso. […] Per un qualche stato di cose oscuro ma che innegabilmente si rende percepibile, non è semplicemente possibile, non è decente, non è rispondente alla realtà che un giovane declami nel consesso di persone sperimentate e anziane principi etici generali. […] Una cosa importante per il discorso etico non è solo la giustezza del contenuto dell’enunciazione, bensì anche il possesso dell’autorità concreta a farla, non è solo ciò che si dice, ma anche chi lo dice (ODB 6, p. 327).

Nel discorso etico bonhoefferiano viene recuperato così il principio di autorità108 proprio sulla base del fatto che la morale non consiste in un sistema di proposizioni giuste in sé, che si dia in abstracto da qualsiasi tempo e luogo, ma implica un rapporto con persone e situazioni determinate. L’agire etico non consiste nell’applicazione di norme, ma è strettamente legato all’essere della persona soggetto dell’azione e ai rapporti che lo determinano.109

Sorge così il problema del fondamento dell’autorità etica, ma, «con tale questione, il fenomeno etico va decisamente oltre se stesso».110 Infatti, ciò che autorizza a fare un discorso etico è solo il «comandamento di Dio», che «non è l’atemporalmente e universalmente valido in contrapposizione allo storico e temporale», ma «è un discorso di Dio all’uomo, e precisamente un discorso per contenuto e forma concreto all’uomo concreto»;111 per questo esso prende il nome di «comandamento concreto» (das konkrete Gebot).112

Il comandamento di Dio si rivela in Gesù Cristo e si manifesta nella storia nei quattro mandati divini: la Chiesa, la famiglia, il lavoro e l’autorità. In tal modo esso abbraccia la vita intera. Esso «non vigila solo, come il fenomeno etico, sui confini invalicabili della vita, ma è nel medesimo tempo il centro e la pienezza di questa».113 Il comandamento di Dio non è solo «dovere» (Sollen), ma anche «permesso» (Erlauben): è il permesso «di vivere come uomini davanti a lui» e in quanto tale «comanda la libertà» (die Freiheit gebietet). Il comandamento divino è, quindi, il fondamento «di questa vita», di cui «il “fenomeno etico” nulla sa», poiché «il flusso (der Fluss) della vita dal concepimento al sepolcro […] è qualcosa di “preetico”»,114 mentre esso si trova, pur senza esserne consapevole ad ogni istante, all’interno del comandamento di Dio.

Il comandamento di Dio non è altro alla fine che il fondamento cristologico della realtà, lo stesso che costituisce l’unità del reale, il principio formativo della storia, la garanzia della coincidenza tra la vita e il bene e del valore positivo conservato per la vita naturale. La dottrina del comandamento concreto «rivelato in Gesù Cristo» e dei mandati divini acquista pieno significato se viene letta alla luce dell’ontologia cristologica professata in Cristo, la realtà e il bene e in Ethik als Gestaltung. D’altra parte, però, è questa stessa dottrina che contribuisce a chiarire gli scritti precedenti dell’Etica, nel momento in cui chiarisce come la vita umana sia sostenuta e fondata in Dio.115 Vi è insomma un impianto sostanzialmente unitario alla base dell’Etica, di cui la nuova edizione critica mette maggiormente in evidenza le strutture portanti, che sono senz’altro presenti, nonostante la frammentarietà alla quale gli eventi hanno condannato quest’opera.

3. Il ruolo del tema etico nell’economia del pensiero bonhoefferiano

L’Etica è stata definita da Perone «il libro centrale della teologia bonhoefferiana», «il luogo in cui convergono tutte le strade che la sua teologia ha tentato e da cui partono le soluzioni che troveranno la loro prima espressione organica nella lettera manifesto del 30 aprile 1944».116 Ma sarebbe più appropriato dire che «la tematica etica, e non l’Etica soltanto come libro, riveste per Bonhoeffer un’importanza decisiva, che la fa divenire quasi il “luogo” del discorso teologico».117

Si tratta di vedere per quali ragioni il problema etico assuma questo ruolo di centralità in Bonhoeffer.

3.1 Il problema teologico fondamentale

Per illuminare le ragioni dell’importanza del tema etico occorre definire la problematica teologica fondamentale che ha occupato Bonhoeffer nel corso della sua vicenda umana e di pensiero.

La riflessione bonhoefferiana prende le mosse dalla teologia dialettica, benché l’ambiente di formazione del teologo tedesco sia quello della teologia liberale, dominante nella facoltà berlinese agli inizi del Novecento. Il fatto che la teologia dialettica costituisca la radice teologica fondamentale di Bonhoeffer è attestato sia dalle posizioni assunte nelle sue due prime opere (Sanctorum Communio e Atto ed essere), sia dalla diffidenza che si creò attorno a lui durante gli anni di insegnamento a Berlino.118 Anche Bethge nella sua monumentale biografia indica l’incontro con l’opera barthiana, avvenuto nell’inverno 1924-25, come una delle esperienze fondamentali per il giovane teologo, insieme alla conoscenza della Chiesa cattolica durante il viaggio a Roma del 1923.119

Fin dal periodo giovanile, però, nonostante il fascino esercitato su di lui dalla rivoluzione teologica di Barth, Bonhoeffer ne avvertì i limiti e le difficoltà. Il principio del Solus Deus e il primato del Totalmente Altro, infatti, se permettono di evitare il rischio della riduzione dell’Assoluto al soggetto e della rivelazione alla categoria umana dell’apriori religioso, finiscono però per annichilire l’uomo e la sua realtà mondana, consegnandolo all’abisso indecifrabile della grazia. Così, per salvare l’Assoluto, appunto come ab-solutus, cioè «sciolto» dal soggetto, si finisce per distruggere la consistenza ontologica di quest’ultimo; per evitare la hybris propria di ogni filosofia di rinchiudere la verità nell’io,120 si considera l’io credente un “non-io”,121 sollevando così il problema dell’unità tra l’io naturale e l’io credente o “non-io”. L’annientamento della realtà umana di fronte all’Oggetto Assoluto, d’altra parte, porta ad inficiare lo stesso rapporto tra l’uomo e Dio, perché, venendo a mancare uno dei due termini, non si può più parlare di «rapporto».

Il problema del rapporto tra il divino e l’umano, ovvero tra l’eterno e la contingenza, si pone, in termini schiettamente teologici, come il problema della possibilità per l’uomo peccatore di recepire la rivelazione divina. Infatti, se il peccato ha totalmente distrutto nell’uomo l’imago Dei, rendendolo incapax Infiniti, come potrà questi essere in grado di aprirsi e accogliere la Parola? D’altra parte se l’apertura al divino fosse inscritta nella natura umana, come vuole la teologia liberale, la rivelazione diverrebbe solo un necessario completamento dell’essere umano e perderebbe il suo valore di assoluta gratuità e di testimonianza del Totalmente Altro; in un certo senso Dio sarebbe a servizio dell’uomo e del suo bisogno di assoluto, tanto che diverrebbe difficilmente contestabile la critica feuerbachiana di un cristianesimo proiezione sublimata dell’umanesimo.

In Bonhoeffer si avverte sin dalle prime opere la consapevolezza dei rischi presenti nelle due posizioni e il tentativo di mediarle, pur rimanendo fondamentalmente all’interno della teologia dialettica. La soluzione è trovata da Bonhoeffer nella cristologia, ed è appunto la cristologia a costituire, come si è visto, l’architrave della riflessione teologica bonhoefferiana durante tutto il suo sviluppo. Il tema cristologico si presenta però in diverse forme a seconda della prospettiva storico-esistenziale in cui si trova il teologo: la questione ecclesiologica, quella omiletica e quella etica sono forse i tre punti di vista fondamentali dai quali Bonhoeffer affronta il problema della rivelazione dell’essere di Cristo. Il tema etico in particolare costituisce un filo rosso di notevole rilievo all’interno della sua opera.

3.2 Lo sviluppo del tema etico122

Se la tesi di laurea e la tesi di dottorato rivelano una netta propensione per i problemi di teologia sistematica,123 le conferenze tenute a Barcellona presso la comunità evangelica tedesca, di cui era vicario, presentano l’affiorare del tema etico in connessione con i problemi dell’attività pastorale, che per la prima volta lo coinvolgevano così da vicino.

La terza di queste conferenze, che porta il titolo Questioni fondamentali di un’etica cristiana, propone il tema esplicitamente. In essa viene esposta la tragica divisione presente nel mondo decaduto tra ordinamento della storia e ordinamento dell’amore, una divisione che spesso costringe il cristiano, in quanto è chiamato a restare «fedele alla terra», a venir meno al comandamento evangelico e a seguire le leggi del mondo. Significativo per gli uditori era l’esempio del soldato (la conferenza si tenne nel 1929, quando ancora freschi erano nei tedeschi i ricordi della prima guerra mondiale) e del commerciante (la comunità evangelica tedesca di Barcellona era composta per lo più da uomini d’affari): entrambi sono figure paradigmatiche della condizione di tragica paradossalità in cui vivono i cristiani nel mondo.124 In conclusione un’etica cristiana risulta per il giovane vicario una contraddizione in termini, superabile solo attraverso la fede nella misericordia di Dio. L’etica, infatti, è considerata hegelianamente come espressione dell’«ethos» di un popolo o di una nazione, quindi manifestazione del legame dell’uomo alla terra; l’essere-cristiano, invece, getta l’uomo nel paradosso di ciò che è al di là della realtà mondana, nel Totalmente Altro. L’appartenenza per elezione divina al Regno, che non è di questo mondo, non può e non deve però indurre l’uomo a tradire la fedeltà alla madre terra;125 pertanto il cristiano si trova a vivere nella tragica situazione di dover uccidere e contemporaneamente amare il nemico, lottare per il proprio successo e credere al «porgi l’altra guancia» di Cristo. Questa condizione paradossale non deve essere negata o mitigata, ma accettata eroicamente nella fede nella misericordia divina.

Durante l’anno di studio trascorso alla Union Theological Seminary di New York nel 1930-1931 Bonhoeffer frequentò molti corsi dedicati a temi etici tenuti da Niebuhr e si interessò del pragmatismo americano e del movimento del Social Gospel. In questo periodo avvenne la conversione all’ecumenismo e al pacifismo con l’abbandono dell’idea neoluterana di un «divino» ordinamento storico dei popoli.

In occasione del suo primo incontro con Barth, nel luglio del 1931 a Bonn, la discussione tra i due si accese appunto sul problema dell’etica teologica, come testimonia la lettera ad Erwin Sutz, che aveva fatto da tramite per il contatto.126 Bonhoeffer contestava a Barth il tentativo di porre criteri relativi al di là della Parola e al tempo stesso esprimeva l’esigenza di rendere attuale l’annuncio del vangelo, tanto che le sue richieste sembrarono al teologo di Bonn dettate solo da un «desiderio di trovare risposte spendibili sul piano operativo, […] appiattite su una dimensione di constatabilità empirica e dunque non rispettose dell’alterità del kerygma».127 Due anni dopo, però, con Hitler al potere, lo stesso Barth sostenne il bisogno di concretezza nella predicazione della Chiesa.

Con la percezione sempre più chiara della catastrofe imminente nella Germania prostrata da una situazione economica e sociale insostenibile il problema etico divenne per Bonhoeffer sempre più urgente.128 Nel semestre estivo del 1932 il giovane teologo tenne un seminario dal titolo C’è un’etica cristiana?.129 Egli pose la questione nei termini del collegamento tra l’agire dell’uomo e la volontà di Dio che nell’agire crea. Si trattava, quindi, di quello che sopra si è definito il problema teologico fondamentale: «il problema etico è identico al problema di Dio. Nell’interrogarci sul bene incontriamo infatti la domanda su Dio».130

Bonhoeffer prendeva in considerazione le soluzioni prospettate da tre teologi, che costituivano senz’altro i suoi punti di riferimento più forti nel panorama teologico a lui contemporaneo: Barth, Althaus e Gogarten. Barth, al quale fu dedicato lo spazio più ampio nell’ambito del dibattito seminariale, considerava la fondazione di un’etica sulla base delle sole forze umane come una velleità irrealizzabile animata dalla stessa hybris del peccato originale (che sta poi alla base della nascita della religione); egli riteneva che «per la realizzazione dell’oggetto etico […] l’attrezzatura di possibilità umana è semplicemente insufficiente». L’unica via d’uscita in grado di salvare l’uomo dalla caduta nel caos nichilistico dell’assenza di criteri etici sarebbe stata allora la fede che «l’esistenza e l’agire umano siano posti sotto la promessa di Dio». In questo modo Barth non dava una risposta alla domanda etica, ma la lasciava aperta, dandole però la possibilità e il diritto di esistere come domanda, dal momento che la risposta c’è, anche se non si conosce, per cui la domanda non è priva di senso. In uno scritto del 1929, Der Heilige Geist und das christliche Leben, poi, la possibilità di cogliere in concreto la volontà di Dio era riposta dal teologo svizzero «solo nel miracolo dello Spirito Santo», il quale, pur manifestandosi come «evento», quindi all’interno della storia, rimanda sempre alla dimensione dell’attesa escatologica.

Opposta si presentava la soluzione di Althaus, il quale, recuperando il concetto di creazione e di coscienza, indicava in essi i mezzi per la conoscenza del comandamento di Dio. In tal modo, però, venivano santificati gli «ordini» della natura e della storia e veniva dato un posto secondario alla rivelazione in Cristo. Contro tale posizione si era scagliata la critica di Gogarten, che nello scritto Etica della coscienza ed etica della Grazia131 aveva rivendicato il primato assoluto del vangelo e il ruolo determinante della Grazia nella guida dell’agire cristiano.

Nella seconda parte del seminario Bonhoeffer abbozzava una propria soluzione, che, pur abbracciando la prospettiva barthiana, presentava spunti originali che preannunciavano l’evoluzione successiva dell’Etica e delle lettere dal carcere. Posta la centralità assoluta di Cristo e della rivelazione veniva fatta una distinzione tra l’annuncio della salvezza dato nel vangelo e la volontà imperativa di Dio espressa nel suo comandamento: il primo richiede la fede, la seconda l’agire. La fede e l’opera sarebbero indissolubilmente legate per Bonhoeffer, che già in Atto ed essere definiva l’agire propriamente cristiano allo stesso modo della fede, cioè con il concetto di actus directus, tanto che «se l’uomo ascolta il vangelo, agisce» e il vero ascolto non può darsi che nell’azione. Tuttavia gli ambiti in cui il vangelo e i comandamenti si rendono manifesti sono diversi: «il vangelo diventa concreto per mezzo del sacramento, il comandamento per mezzo della realtà».132

Il seminario estivo del 1932 costituì il calco della relazione tenuta da Bonhoeffer nel luglio dello stesso anno a Černohorské Kúpele in Cecoslovacchia nell’ambito di una conferenza ecumenica. In qualità di segretario del settore giovanile del Weltbund der Kirche egli tentò di dare all’attività di questa organizzazione un fondamento teologico, di cui avvertiva fortemente la mancanza,133 percependo che proprio tale mancanza rischiava di vanificare l’operato del movimento ecumenico. La questione del fondamento dell’azione delle diverse chiese cristiane per la pace era la questione della possibilità per la Chiesa di Cristo di predicare nel concreto il comandamento di Dio. La proposta teologica originale di Bonhoeffer era che la condizione di possibilità di una predicazione concreta per il mondo risiedesse nel fatto che «la realtà è il sacramento del comandamento di Dio»134 e di questa realtà la Chiesa partecipi come dello Spirito di Cristo. Si trattava di una soluzione che non esauriva però il problema e non accontentava il pastore Bonhoeffer, che in una lettera all’amico e collega Rössler (18 ottobre 1931) sfogava tutta la sua angoscia per l’incapacità della Chiesa di dire una parola concreta al mondo, in un tempo in cui esso stava sprofondando nel nichilismo e nell’irrazionalismo, di cui la più eloquente manifestazione era costituita dall’affermazione nazista: «l’invisibilità ci distrugge».135

L’apertura di una nuova pista da seguire venne a Bonhoeffer, come confessò egli stesso in una lettera del 1936, dalla riscoperta della Bibbia, documentata dal corso del semestre invernale 1932-1933 su Genesi 1-3, pubblicato per richiesta degli studenti col titolo di Creazione e caduta.136 Non si trattò, per la verità, di un’illuminazione improvvisa. Questa conversione fu preparata prima di tutto dall’incontro con la Offenbarungstheologie, poi da alcune importanti esperienze personali come la conoscenza del Social Gospel e della realtà di Wedding, il quartiere operaio nel quale Bonhoeffer seguì una classe di confermandi durante l’inverno 1931-1932. Qui il teologo tedesco poté sperimentare come la semplice lettura della Bibbia fosse ben più efficace dei discorsi di teologia, dal momento che faceva presa direttamente sulla vita, soprattutto quando si trattava del discorso escatologico.137

Dalla riscoperta della Parola è nato un libro come Sequela che risolve appunto il problema etico nell’ottica della imitatio Christi. Tale prospettiva, lungi dall’essere, come potrebbe sembrare, un ripiegamento nella cura animae, costituiva il recupero di un pensiero cristologico forte che dava strutturazione alla realtà sul fondamento della realtà di Cristo. Si trattava della direzione indicata in quegli anni anche da Barth, il quale «pone rigorosamente in relazione (in maniera perfettamente biblica) tutti gli ordinamenti del mondo creato con Cristo e dice che solo alla sua luce essi possono essere compresi nel modo giusto e che in lui essi dovrebbero trovare il loro orientamento».138

A questo punto siamo già sulla linea di Cristo, la realtà e il bene, il primo manoscritto dell’Etica. L’identificazione di Cristo con la realtà, o meglio con la struttura fondante la realtà, permette di far coincidere il bene con la vita, che è sempre vita storica. In tal modo si apre lo spazio per un’etica concreta che non sia l’applicazione incondizionata di principi astratti, ma neppure l’appiattimento e la santificazione acritica del reale o un nietzschiano amor fati.

3.3 Agire etico e realtà: il concetto di Gestaltung

Il bene non si dà in abstracto, ma sempre legato ad una situazione concreta: «non ci chiediamo dunque che cosa sia bene in sé, ma che cosa sia bene nella vita così come è, per noi che viviamo. […] La questione del bene si pone e si decide in ogni situazione determinata eppure incompiuta, unica eppure già transeunte della nostra vita».139 Il bene insomma si dà come realtà concreta o non si dà. Esso si rivela positivamente nella realtà di Cristo, perciò non può essere assimilato ad un ideale o ad un valore separato dalla vita. Dal momento che Cristo ha detto di sé: «Io sono la vita», la questione del bene si pone come la realizzazione della vita.140 Nella questione etica, cristianamente intesa, «non si trovano di fronte una realtà rivelata quale premessa e la costruzione di un mondo nuovo che da essa parte («l’uomo nuovo»), bensì la realtà rivelata e la plasmazione della vita nell’attuazione concreta appaiono incrociate in maniera permanente»141 e questo permette di porre il problema etico nel modo più concreto.

Se il comandamento di Dio non si dà separatamente dalla realtà, anzi è la realtà che lo rivela, che ne è «sacramento», poiché la realtà è fondata in Cristo, che è il comandamento stesso, allora l’etica non consiste nell’applicazione di norme o principi validi di per sé con l’intento di «formare» il reale secondo detti principi, ma si risolve nello sviluppo della realtà secondo la sua intrinseca verità, che è appunto cristologica.

L’agire etico, quindi, è determinato dal concetto di Gestaltung. La traduzione data nell’edizione del 1969 del titolo originale del saggio Ethik als Gestaltung con Funzione formativa dell’Etica non rende propriamente, a mio parere, il senso del pensiero bonhoefferiano, come invece fa la traduzione proposta nell’ultima edizione del 1995 (Etica come conformazione). Infatti, benché Gestaltung si traduca solitamente con «formazione», qui il concetto di «formazione», cioè di uno sviluppo delle potenzialità della realtà umana, è senz’altro coincidente con il concetto di «conformazione», cioè di conformazione a Cristo, poiché l’attuazione dell’essere dell’uomo coincide con la realizzazione della imitatio Christi, essendo Cristo la verità dell’essere dell’uomo. L’etica come Gestaltung sta ad indicare, quindi, il farsi della realtà in Cristo e contemporaneamente il farsi di Cristo nella realtà, dove il secondo momento costituisce il fondamento del primo, poiché la realtà non potrebbe divenire se stessa in Cristo, se Cristo non fosse divenuto realtà e non avesse così assunto in sé la realtà.

Tuttavia si deve notare che «la realtà rivelata» e la «plasmazione della vita» si trovano «incrociate», non sovrapposte. Ciò significa che tra il processo di formazione della realtà ad immagine di Cristo e la realtà di Cristo stesso c’è sempre uno scarto, che impedisce di parlare di immanenza. Lo «scarto» è dato dal fatto che la realtà fondante di Cristo proviene all’uomo ab externo, dalla rivelazione, per cui non può essere identificata con il soggetto agente, sia esso individuale o collettivo. Il punto di partenza è sempre il Totalmente Altro e la sua rivelazione biblica.142

L’agire responsabile è garantito appunto dalla non immanenza del principio divino, che viene chiarita da Bonhoeffer attraverso la dottrina dell’ultimo-penultimo. La realtà di Cristo, pur essendo realtà storica, è una realtà «ultima», rispetto alla quale la vita umana rimane sempre «penultima», cosicché non può identificarvisi, sebbene si costituisca dialetticamente a partire da questa. La distanza che viene conservata tra ultimo e penultimo è resa manifesta dalla non conoscenza da parte del penultimo delle realtà ultime. Tale ignoranza, che nelle lettere dal carcere viene sottolineata attraverso la dottrina dell’arcani disciplina, garantisce l’autonomia della dimensione penultima, nella quale agisce l’uomo, e lascia spazio al rischio della responsabilità, che non è fittizio, dal momento che porta con sé l’assunzione di colpa.143

In conclusione, se il fondamento dell’etica concreta cristiana risiede nell’unità della realtà mondana e divina in Cristo, le condizioni di possibilità, o meglio le «premesse»144 per l’agire umano risiedono nell’indipendenza e quindi nel valore in sé della realtà mondana, nella quale l’uomo è chiamato ad operare. Tale indipendenza è rivendicata esplicitamente dalla vita naturale,145 la cui piena e libera attuazione diviene condizione necessaria per l’ascolto e l’annuncio della Parola.

La definizione dell’etica come Gestaltung si accosta o meglio si realizza attraverso un’etica della situazione,146 che valorizza la dimensione contingente e storica nella quale si dà l’agire umano. Il problema del rapporto tra il primato cristologico e la discrezionalità legata alla situazione concreta viene risolto attraverso la dottrina dei mandati. I quattro mandati (matrimonio, lavoro, autorità e Chiesa) sono i «luoghi» in cui si realizza la Gestaltung, ma sono anche dimensioni mondane e come tali soggette alla precarietà e all’ambiguità della realtà mondana. I mandati non sono gli «ordini» di Althaus o di Brunner,147 la cui sacralizzazione risiede semplicemente nel loro status; essi sono ambiti nei quali l’uomo è chiamato ad assumere la responsabilità del suo esistere e in tal modo a conformarsi a Cristo. L’appartenenza ad essi non santifica ipso facto l’azione umana, ma le dà la possibilità di guadagnare un senso. Il lavoro, il matrimonio, l’autorità pubblica e anche la Chiesa non sono isole «salvate» nella realtà del mondo caduto, né vie che conducono alla salvezza, perché questa è sempre e solo un’irruzione dell’aldilà non pianificabile, tuttavia sono voluti da Dio per indicare come la realtà mondana sia fondata in Cristo:

Non perché il lavoro, il matrimonio, l’autorità e la Chiesa esistono, essi sono divinamente comandati, bensì esistono perché sono comandati da Dio, e solo nella misura in cui il loro essere è — consapevolmente o inconsapevolmente — assoggettato all’incarico divino si tratta di un mandato divino (ODB 6, p. 48).

Chiaramente prevale sulla concezione tomista che parte dall’esistente per giungere a Dio, quella luterana, e in particolar modo barthiana, del primato della rivelazione: è la Parola divina che fonda l’esistente e lo rende comprensibile, non l’esistente che rende accessibile Dio.

I mandati, però, non solo rivelano il legame strutturale della realtà mondana con quella cristologica, superando tra l’altro la divisione in sfere (sacra e profana), ma hanno anche il compito di assicurare l’autonomia dell’esistente. Infatti, dal momento che esso si costituisce su un mandatum, cioè su un comandamento, possiede intrinsecamente la possibilità di adempiere o meno a questo comandamento. L’adempienza concreta sancisce il diritto all’esistenza nel caso concreto, mentre «la violazione caparbia e arbitraria dell’incarico […] estingue il mandato nel caso concreto». Tuttavia l’annullamento del mandato non è mai totale, perché rimane sempre l’atto fondativo originario nella volontà divina: «grazie al mandato divino anche l’esistente concreto viene ad essere relativamente giustificato».148

È proprio sulla base di questa relativa giustificazione, ovvero della possibilità di sussistenza autonoma della realtà mondana, che si apre lo spazio per l’azione responsabile, la quale può darsi solo nell’orizzonte di una realtà finita che permane nella propria finitezza senza annullarsi in un fondamento infinito (idealismo) e senza assolutizzarsi (positivismo). La responsabilità umana è sempre limitata e, in quanto tale, reale:

L’azione adeguata alla realtà è limitata dalla nostra creaturalità. Non siamo noi a creare le condizioni del nostro agire, ma ci troviamo già in partenza immersi in esse. Quando agiamo ci troviamo sia in avanti che all’indietro, immersi in determinati limiti che non possono essere travalicati. La nostra responsabilità non è infinita, ma limitata.

[…] Il compito non può essere quello di svellere il mondo dai suoi cardini, bensì quello di fare nel posto assegnatoci il necessario tenendo conto della realtà (ODB 6, p. 233).

La dottrina dei mandati rappresenta il momento di mediazione che permette il collegamento tra il processo di Gestaltung e l’azione responsabile dell’uomo, la quale si dà sempre all’interno dell’orizzonte finito del reale. Il pericolo che tale orizzonte sia assorbito e annullato idealisticamente nella categoria dell’infinito è scongiurato dalla dialettica «ultimo-penultimo», che, come si è visto, salvaguarda un certo diritto di sussistenza alla vita naturale. I mandati, a ben vedere, non sono altro che una specificazione di questa dialettica.

In Resistenza e resa il tema della responsabilità e quello connesso dell’indipendenza del penultimo portano alla teoria dell’autonomia del mondo e alla critica dell’«ipotesi di lavoro: Dio». Infatti, l’uomo non può rendersi veramente responsabile della propria esistenza e realizzare così il suo essere uomo, se non è in una condizione di maturità, quindi di emancipazione da qualsiasi tutela soprannaturale: l’uomo per essere uomo deve essere assicurato nella sua finitezza.149

Alla luce di queste considerazioni l’Etica di Bonhoeffer appare ben più di un’opera sulla morale cristiana. Essa raccoglie, intreccia e sintetizza le diverse problematiche, che appaiono negli scritti precedenti del teologo, e apre quelle prospettive che saranno poi l’oggetto delle riflessioni di Tegel: l’autonomia del mondo, l’abbandono dell’ipotesi di lavoro Dio, il cristianesimo non religioso, l’interpretazione non religiosa dei concetti biblici. Per questo l’Etica può essere considerata a ragione la Lebenswerk di Bonhoeffer,150 l’arco di volta del suo pensiero. Al tempo stesso il tema etico appare qualcosa di più di una questione inerente la filosofia pratica, dal momento che la prospettiva della Gestaltung, che si è assunta come chiave di lettura dell’opera, in connessione con la dottrina dei mandati, dell’ultimo-penultimo e della vita responsabile, comprende insieme problemi morali, teologici e ontologici. Questo ruolo fondamentale della questione etica in generale, e dell’Etica in particolare, viene a mio parere messo ancor più in rilievo dalla nuova edizione critica, che contribuisce a rivelare l’architettura originale dell’opera, a rendere visibile «come era stato progettato e pensato il tutto» e «il materiale con cui si era costruito o si doveva costruire».151

Abbreviazioni

Nelle note e nelle citazioni per le opere di Bonhoeffer vengono usate le seguenti abbreviazioni:

ODB 6
Opere di Dietrich Bonhoeffer, vol. 6, Etica, a cura di A. Gallas, tr. it. di C. Danna, Queriniana, Brescia 1995.
DBW
Dietrich Bonhoeffers Werke, hrs. von E. Bethge,, E. Feil, C. Gremmels, W. Huber, H. Peifer, A. Schönherr, H.E. Tödt, in 16 Bänden (il numero che segue indica il singolo volume).
AE
Atto ed essere. Filosofia trascendentale ed ontologia nella teologia sistematica, tr. it. a cura di A. Gallas, Queriniana, Brescia, 1985.
E
Etica, tr. it. a cura di A. Comba, Bompiani, Milano, 1969.
RR
Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, tr. it. a cura di A. Gallas, Edizioni Paoline, Alba, 1988.
SC
Sanctorum Communio. Una ricerca dogmatica sulla sociologia della chiesa, tr. it. a cura di A. Bruno, Morcelliana, Brescia, 1972.
Scritti
Gli Scritti (1928-1944), tr. it. a cura di M.C. Laurenzi, Queriniana, Brescia, 1979.

Altre abbreviazioni utilizzate:

Bethge
E. Bethge, Dietrich Bonhoeffer. Teologo, cristiano, contemporaneo. Una biografia, tr. it., Queriniana, Brescia, 1975.
KD
K. Barth, Die kirchliche Dogmatik, Theologischer Verlag, Zürich, 1932 e seguenti (i numeri romani e arabi che seguono indicano i singoli volumi e tomi).
MW
Die mündige Welt, I-IV, Kaiser Verlag, München, 1955-1969 (il numero romano che segue indica il singolo volume).

  1. Tale è la definizione della figura di Dietrich Bonhoeffer, posta da Eberhard Bethge a sottotitolo della sua monumentale biografia Dietrich Bonhoeffer. Teologo, cristiano, contemporaneo. Una biografia, tr. it., Queriniana, Brescia 1975. ↩︎

  2. Per restare in ambito italiano si pensi alla monografia di A. Gallas, «Ánthropos téleios». L’itinerario di Bonhoeffer nel conflitto tra cristianesimo e modernità, Queriniana, Brescia 1995. ↩︎

  3. Cfr. H. Ott, Wirklichkeit und Glaube, Bd I: Zum theologischen Erbe Dietrich Bonhoeffers, Zürich 1966, p. 149. ↩︎

  4. «Nella lettera del 5 maggio 1944 Bonhoeffer si esprime in modo tale da mostrare il proprio disagio per la difficile situazione in cui si trova e che non gli consente di svolgere in modo adeguato le proprie riflessioni teologiche. Egli infatti da una parte avverte di affrontare argomenti estremamente scottanti e addirittura decisivi per la teologia. Dall’altra si trova in condizioni materiali di lavoro assai disagiate, con una insufficienza di strumenti bibliografici facilmente intuibile, ma soprattutto con l’impossibilità di realizzare uno dei momenti fondamentali del suo metodo di ricerca teologica, cioè la comunicazione delle proprie intuizioni e la loro discussione. La comunicazione in forma epistolare è indicata appunto come un surrogato di questa esigenza» (S. Sorrentino, La critica della religione in Dietrich Bonhoeffer, in «Sapienza», 29 (1976), pp. 129-177, 133. ↩︎

  5. H. Cox, copertina di «Union Seminary Quaterly Review», XXIII (1967). ↩︎

  6. Dalla lettera di Barth a Herrenbrück (cfr. MW 1, p. 121s). ↩︎

  7. H. Müller, Von der Kirche zur Welt. Ein Beitrag zu der Beziehung des Wortes Gottes auf die Societas in Dietrich Bonhoeffers theologischer Entwicklung, Kohler und Amelang, Leipzig 1961. ↩︎

  8. Cfr. RR, p. 348. ↩︎

  9. Cfr. I. Mancini, Bonhoeffer, Vallecchi, Firenze 1969, p. 331. ↩︎

  10. Cfr. Bethge, p. 959. Un svolta nella ricerca su Bonhoeffer si ebbe nel 1963 con la pubblicazione del best-seller di John A.T. Robinson Honest to God (in traduzione italiana: Dio non è così, Vallecchi, Firenze 1965), nel quale il nome di Bonhoeffer ricorre spesso, accanto a quello di altri teologi «rivoluzionari» come Bultmann e Tillich. «L’utilizzazione che J. Robinson fa delle idee di Bonhoeffer è piuttosto eclettica e garibaldina», commenta Gibellini (cfr. R. Gibellini, Studi su Bonhoeffer, in Dossier Bonhoeffer, a cura di R. Gibellini, Queriniana, Brescia 1971, p. 11), tuttavia essa ha contribuito notevolmente ad allargare la fama del teologo tedesco in tutto il mondo e ad avviare una serie di studi nelle facoltà teologiche americane, che costituiscono una delle linee interpretative più affermate nella Bonhoeffer-Forschung. Una rassegna della letteratura anglosassone su Bonhoeffer si trova nel quarto volume di MW: cfr. J.A. Phillips, Die Bedeutung des Lebens und Werkes Dietrich Bonhoeffers für britische und amerikanische Theologen, in «Die mündige Welt», Bd. IV, Chr. Keiser Verlag, München 1963, pp. 152-168. Per schematizzare nell’area inglese sono da individuare due direttrici: quella secolarista e quella cristologica. La prima interpreta Bonhoeffer come il precursore della cosiddetta teologia della secolarizzazione (cfr. J.A. T. Robinson, Honest to God, cit., H. Cox, La città secolare, tr. it., Vallecchi, Firenze 1968 [pubblicazione 1965]), della teologia analitica radicale (cfr. P.M. van Buren, Il significato secolare dell’evangelo, tr. it., Gribaudi, Torino 1969 [pubblicazione 1963]), e del cosiddetto ateismo cristiano (cfr. W. Hamilton, La nuova essenza del cristianesimo, tr. it., Queriniana, Brescia 1969 [pubblicazione 1961], Th.J.J. Altizer — W. Hamilton, La teologia radicale e la morte di Dio, tr. it., Feltrinelli, Milano 1969 [pubblicazione 1966]; Th. J.J. Altizer, Il vangelo dell’ateismo cristiano, tr. it., Ubaldini, Roma 1969 [pubblicazione 1966]). La seconda è rappresentata soprattutto da John Phillips (cfr. J. Phillips, The form of Crist in the World, Collins, Londra 1967), che individua nella cristologia di Bonhoeffer due fasi: una classica, in cui Cristo è inteso come struttura della Chiesa, e una storica, in cui Cristo costituisce la struttura della storia. Per tutte queste interpretazioni il «vero» Bonhoeffer è comunque quello di Resistenza e resa↩︎

  11. Queste sono per altro le lettere raccolte nella prima edizione di Resistenza e resa (1951), nella quale non era stato compreso molto altro materiale a carattere più personale, la cui pubblicazione nell’edizione del 1970 ha rivelato «tratti di esistenza e di spiritualità» che hanno contribuito senz’altro a modificare l’immagine “radicale” di questo teologo (cfr. A. Gallas, La centralità del Dio inutile, «Saggio introduttivo» in RR). ↩︎

  12. André Dumas, Une théologie de la réalité: Dietrich Bonhoeffer, Labor et fides, Genève 1968. ↩︎

  13. Heinrich Ott, Wirklichkeit und Glaube, Bd I: Zum theologischen Erbe Dietrich Bonhoeffers, Vandenhoeck und ruprecht, Zürich 1966; Rainer Mayer, Christuswirklichkeit. Grundlagen, Entwicklung und Konsequenzen der Theologie Dietrich Bonhoeffers, Calwer Verlag, Stuttgart 1969; Ernst Feil, Die Theologie Dietrich Bonhoeffers. Hermeneutik — Christologie — Weltverständnis, München-Mainz 1971. ↩︎

  14. Cfr. Alberto Gallas, «Ánthropos téleios». L’itinerario di Bonhoeffer nel conflitto tra cristianesimo e modernità, Queriniana, Brescia 1995, p. 382. ↩︎

  15. Cfr. RR, p. 345 (22. 4. 1944). ↩︎

  16. RR, p. 345. ↩︎

  17. Gallas, op. cit., p. 414. ↩︎

  18. Cfr. ibid. ↩︎

  19. RR, p. 458 (3. 8. 1944). ↩︎

  20. Si tratta del corso del semestre invernale 1932-33 pubblicato per volere degli studenti con il titolo Schöpfung und Fall (Creazione e caduta). Anche Conci giudica il 1932 «uno degli anni «decisivi» per la sua vita come per le sorti del mondo», «un periodo di conversione, nel quale ritroviamo motivi che Bonhoeffer non abbandonerà più (i cui echi sono riconoscibili fino alle lettere dal carcere)» (A. Conci, Dalla guerra invincibile al comandamento della pace. La riflessione di Dietrich Bonhoeffer nei primi anni Trenta, in «Hermeneutica», Nuova serie (1996), pp. 201-219, p. 201. ↩︎

  21. U. Perone, Storia e ontologia. Saggi sulla teologia di Bonhoeffer, Edizioni Studium, Roma 1976, p. 17. ↩︎

  22. Un punto paradigmatico in cui si manifesta questa «anima» del lavoro bonhoefferiano è la nota 28 al capitolo quinto, dove Bonhoeffer confronta la propria concezione dell’amore con quella di Barth. Infatti, mentre per il teologo di Bonn «l’essenza dell’amore del prossimo è quella di “sentire nell’altro la voce dell’Uno”», per cui «“la relazione all’altro è riferimento all’origine”», Bonhoeffer sostiene con forza che «l’amore ama veramente l’altro, non l’Uno nell’altro…e che proprio questo amore dell’altro come altro deve «glorificare Dio»» (SC, p. 120 nota 28). È evidente qui la volontà del giovane teologo di conservare la realtà umano-mondana, sottraendola a qualsiasi fuga mistica. In questa prospettiva la teoria dell’«autonomia del mondo» non sembra affatto una scoperta rivoluzionaria degli ultimi mesi di vita. ↩︎

  23. Barth stesso loda nella sua Dogmatica questo lavoro giovanile di Bonhoeffer, ritenendolo «più istruttivo, più stimolante, più chiarificatore e veramente più “edificante” di ogni sorta di libri più conosciuti e più celebri che sono stati scritti dopo sul problema della chiesa» (cfr. KD, IV/2, p. 725). ↩︎

  24. U. Perone, op. cit., p. 19. ↩︎

  25. Si noti che la pubblicazione di Sein und Zeit è del 1927. Il fatto che l’analisi di quest’opera occupi così grande spazio nella tesi per la libera docenza di Bonhoeffer mostra con quale rapidità il pensiero heideggeriano sia riuscito ad imporsi al dibattito teologico. Cfr. A. Gallas, Editoriale in AE, p. 11. ↩︎

  26. «La filosofia di Heidegger è una consapevole filosofia ateistica della finitudine» (AE, p. 80). ↩︎

  27. Gallas sottolinea come il libro Sequela, non essendo nato «da una serie di corsi e di lezioni tenuti in ambiente accademico» ed essendo destinato «all’esercizio del ministero pastorale», richiede «un notevole sforzo a chi voglia portare alla luce l’impalcatura sistematica di cui Bonhoeffer si serve» (cfr. A. Gallas, op. cit., p. 187). ↩︎

  28. Credo che sia sbagliato, tuttavia, vedere nelle opere bonhoefferiane di Finkenwalde quel ripiegamento intimistico tipico di certa parte della Chiesa confessante. Bonhoeffer, infatti, nonostante la decisa adesione a questa forma di resistenza cristiana contro l’ideologia totalitaria nazista, si rese subito conto del rischio di un arroccamento nella sfera intima della coscienza e spinse nella direzione di una presa di posizione politica nei confronti di Hitler. Per questo anche opere come Sequela e Vita comune possono considerarsi opere politiche, mentre sono state fraintese per lungo tempo come «abili rianimazioni di ristrette posizioni pietiste» (cfr. E. Bethge, Introduzione a Venga il tuo Regno, p. 15). D’altra parte nel memoriale del cognato Gerhard Leibholz pubblicato nell’introduzione all’edizione inglese di Sequela del 1948 il libro è presentato come una testimonianza dell’opposizione tedesca contro Hitler (cfr. DBW 4, p. 13). ↩︎

  29. Cfr. Cristologia in Bethge, pp. 1009ss. ↩︎

  30. Ibid., p. 1012. ↩︎

  31. Cfr. ibid., p. 1013. ↩︎

  32. Cfr. Scritti, p. 298 (Esercitazioni di dogmatica problemi di antropologia filosofica). ↩︎

  33. Cfr. E, p. 166 (Cristo, la realtà e il bene). ↩︎

  34. Cfr. E, p. 47s. (Chiesa e mondo). ↩︎

  35. RR, p. 423 (8. 7. 1944). ↩︎

  36. Cfr. E, p. 87. «Avendo perso l’unità creata dalla persona di Gesù Cristo, l’Occidente trova davanti a sé il nulla. Le forze che si sono liberate si scatenano le une contro le altre. Tutto ciò che esiste è minacciato di annientamento. Non si tratta di una crisi tra le tante, ma di una lotta decisiva degli ultimi tempi. […] Il nulla nel quale precipita l’Occidente non è la fine naturale, il declino, il lento estinguersi della storia di nazioni un tempo fiorenti, ma è un nulla specificamente occidentale, ossia un nulla fatto di ribellione, di violenza e di ostilità contro Dio e contro gli uomini. […] È il nulla fatto dio; nessuno ne conosce gli scopi e la misura; il suo dominio è Assoluto. È un nulla creativo che soffia il suo empio alito in tutto ciò che esiste, lo risveglia ad una vita apparentemente nuova, ma al tempo stesso gli succhia la sua autentica essenza finché non si decomponga e rimanga un vuoto involucro che si getta via. La vita, la storia, la famiglia, il popolo, la lingua, la fede (e la lista potrebbe continuare all’infinito, perché il nulla non risparmia nulla) ne cadono vittime» (E, pp. 89-90). ↩︎

  37. Cfr. RR, p. 399. ↩︎

  38. Si confronti anche la lettera dell’8 giugno 1944: «Il movimento nella direzione dell’autonomia dell’uomo (intendo con questo la scoperta delle leggi secondo le quali il mondo vive e basta a se stesso nella scienza, nella vita della società e dello Stato, nell’arte, nell’etica e nella religione), che ha inizio (non voglio entrare nella discussione della data precisa) all’incirca col XIII secolo, ha raggiunto nel nostro tempo una certa compiutezza. L’uomo ha imparato a bastare a se stesso in tutte le questioni importanti senza l’ausilio dell’«ipotesi di lavoro: Dio». Nelle questioni riguardanti la scienza, l’arte e l’etica, questo è diventato un fatto scontato, che praticamente non si osa più mettere in discussione; ma da circa 100 anni ciò vale in misura sempre maggiore per le questioni religiose; si è visto che tutto funziona anche senza «Dio», e non meno bene di prima. Esattamente come nel campo scientifico, anche nell’ambito generalmente umano «Dio» viene sempre più respinto fuori dalla vita e perde terreno.Il mondo che ha raggiunto la consapevolezza di se stesso e delle leggi che regolano la sua vita è talmente sicuro di sé che la cosa ci risulta inquietante; qualche difetto di crescita e qualche fallimento non possono trarre in inganno il mondo sulla necessità della sua strada e della sua evoluzione; tutto questo viene messo in conto con virile freddezza e nemmeno un evento come questa guerra rappresenta un’eccezione» (RR, pp. 398-399; 8 giugno 1944). ↩︎

  39. «Il tentativo di contrapporre una teologia dell’incarnazione, una teologia della croce e una teologia della resurrezione, assolutizzando erroneamente una di esse, è contrario alla realtà dei fatti» (E, p. 111; Le cose ultime e penultime). ↩︎

  40. «Questo riordinamento dell’Etica rende più evidente l’evoluzione del pensiero di Bonhoeffer da Nachfolge fino alla vigilia delle lettere dal carcere» (dalla Prefazione di Bethge alla sesta edizione in E, p. 9). ↩︎

  41. I puntini di sospensione stanno ad indicare che lo scritto non è stato completato in quel periodo. ↩︎

  42. Per un’esauriente delucidazione si veda la Prefazione degli editori a ODB 6. ↩︎

  43. Tale è l’interpretazione di Italo Mancini, che nell’«Introduzione» all’edizione italiana dell’Etica (1969) individua «tre variabili risolutive» proposte da Bonhoeffer per il momento positivo della sua riflessione etica, mentre per la pras destruens rimane la costante della «critica all’etica dei principi e delle norme» (cfr. I. Mancini, Ciò che è vivo e ciò che è morto nell’Etica di Bonhoeffer, Introduzione all’Etica, tr. it. di A. Comba, Bompiani, Milano 1969, p. XVI s). ↩︎

  44. ODB 6, p. 18. ↩︎

  45. Questo testo, come Etica come conformazione e la prima parte di Eredità e decadenza, è stato redatto tra l’estate e l’autunno del 1940, quando Bonhoeffer si dedicava all’attività di predicatore nella Prussia orientale. ↩︎

  46. ODB 6, p. 32. ↩︎

  47. Cfr ODB 6, pp. 29-33. ↩︎

  48. ODB 6, p. 27. Si veda la critica all’etica svolta nel capitolo L’amore di Dio e lo sfacelo del mondo, dove la conoscenza morale intorno al bene e al male viene vista come conseguenza della caduta e del distacco dall’origine, quindi come un problema concernente solo l’io separatosi con il mondo dall’amore del Dio creatore. ↩︎

  49. ODB 6, p. 28. In questo modo si tratterebbe ancora di una proiezione dell’io e come tale sarebbe sempre esposta alla critica nichilista: «Se nel caso di Dio si trattasse solo di un’idea religiosa, non si capirebbe perché dietro questa presunta realtà “ultima” non dovrebbe ancora esistere la realtà ultimissima del crepuscolo e della morte degli dèi» (ODB 6, p. 28). Bonhoeffer è ben cosciente che lo sbocco della metafisica occidentale, quella che Heidegger chiama metafisica del soggetto, è la nietzschiana morte di Dio. ↩︎

  50. ODB 6, p. 34. ↩︎

  51. Cfr. ibid. ↩︎

  52. Cfr. ibid.. ↩︎

  53. Cfr. ODB 6, p. 35. ↩︎

  54. Cfr. ODB 6, pp. 47-53. ↩︎

  55. Cfr. ODB 6, pp. 35-47. ↩︎

  56. Cfr. ODB 6, p. 60. ↩︎

  57. Cfr. ODB 6, p. 72. ↩︎

  58. Cfr. ODB 6, p. 75. ↩︎

  59. Cfr. ODB 6, p. 75. ↩︎

  60. Il testo è stato iniziato senz’altro nell’estate 1940, ma la parte finale, secondo gli studi filologici eseguiti, sembra essere di un periodo più tardo, probabilmente del 1941. ↩︎

  61. Cfr. ODB 6, p. 82. ↩︎

  62. Cfr. ODB 6, p. 104. La riduzione del tempo all’attimo, nel quale si annullano passato e presente, richiama il testo nietzschiano Della visione e dell’enigma inserito nella terza parte di Così parlò Zarathustra. In esso Zarathustra, guidato da un nano accovacciato sulle sue spalle, giunge di fronte ad una porta carraia, dalla quale partono due strade, una all’indietro e una in avanti; entrambe durano un’eternità e si contraddicono, ma si congiungono l’una con l’altra proprio sotto questa porta. «Il nome della porta sta scritto sopra di essa: “attimo”». Si tratta del primo annuncio del pensiero dell’eterno ritorno, il «pensiero abissale» di Zarathustra che fa tremare di orrore colui che lo concepisce, perché porta con sé l’annientamento del senso di tutte le cose. Bonhoeffer sembra avere ben chiaro nella stesura di Eredità e decadenza che la più radicale espressione del nichilismo occidentale è costituita appunto dalla dottrina nietzschiana dell’eterno ritorno dell’uguale, cioè dalla riduzione del tempo e della storia all’attimo. ↩︎

  63. Cfr. ODB 6, p. 106. ↩︎

  64. Cfr. ODB 6, p. 107. ↩︎

  65. Il testo è stato redatto nel monastero di Ettal tra il novembre 1940 e il febbraio 1941, interrotto dal viaggio in Svizzera organizzato dai congiurati di Canaris per salvare un gruppo di ebrei nell’aprile del 1941. ↩︎

  66. Cfr. ODB 6, p. 124. Si tratta della dialettica di «resistenza» e «resa»: «Dobbiamo affrontare decisamente il destino […] e sottometterci ad esso al momento opportuno» (RR, p. 289). ↩︎

  67. ODB 6, p. 124. ↩︎

  68. ODB 6, p. 133. ↩︎

  69. ODB 6, p. 133. ↩︎

  70. Cfr. ODB 6, p. 138. ↩︎

  71. Anche la stesura di La vita naturale risale al periodo del soggiorno presso il monastero di Ettal. Lo scritto però è rimasto incompiuto. ↩︎

  72. Cfr. ODB 6, p. 144. ↩︎

  73. Tale è la definizione di «buono» secondo la tradizione etica classica dal pensiero greco a quello tomista fino all’Illuminismo. ↩︎

  74. ODB 6, p. 146. ↩︎

  75. «Il concetto di naturale, che deriva da nasci-natura, contiene — a differenza del creaturale, che deriva da creare-creatura — un momento di autonomia, di sviluppo autonomo, che indubbiamente risponde al tema in questione. Con la caduta la “creatura” diventa “natura”. L’immediatezza del rapporto con Dio della vera creatura diventa la libertà relativa della vita naturale. All’interno di questa libertà esiste la distinzione fra il suo uso giusto e il suo uso sbagliato e cioè la distinzione fra naturale e innaturale» (ODB 6, p. 146). ↩︎

  76. «Il “suo” appartenente a ciascuno è nello stesso tempo un qualcos di ogni volta diverso e disuguale (ma appunto non arbitrario!) e tuttavia un qualcosa di oggettivamente fondato in ciò che è naturalmente dato e quindi un qualcosa di universale (ma appunto non di astratto-formale)» (ODB 6, p. 154). ↩︎

  77. A questo proposito Bonhoeffer tratta di seguito i temi del suicidio, con particolare attenzione al problema dell’eutanasia, e della procreazione e gestazione, ovvero dell’aborto, temi più che mai attuali nel tempo del regime nazista. Cfr. ODB 6, pp. 161-189. ↩︎

  78. Cfr. ODB 6, p. 189. ↩︎

  79. I. Mancini, Dietrich Bonhoeffer. Un resistente che ha continuato a credere, Edizioni Qiqajon, Monastero di Bose, 1995, p. 14. ↩︎

  80. Cfr. ODB 6, p. 215s. ↩︎

  81. Cfr. ODB 6, p. 216. ↩︎

  82. Cfr. ODB 6, p. 220. ↩︎

  83. Cfr. ODB 6, p. 217s. ↩︎

  84. «Tale vita come risposta alla vita di Gesù Cristo […] noi la chiamiamo «responsabilità»» (ODB 6, p. 221). ↩︎

  85. ODB 6, p. 223. ↩︎

  86. Cfr. ibid. Il rischio di una terminologia «profana» risiede evidentemente nell’applicazione indebita di categorie del pensiero laico a concetti biblici, fino a perdere il significato autentico di questi ultimi, i quali sono frutto della rivelazione divina e non elaborazione della riflessione umana. Questo è appunto, secondo Bonhoeffer, l’errore in cui è incorsa la teologia liberale. Tuttavia, come fa giustamente presente Bonhoeffer, «va tenuto presente che non si può adoperare senza rischi neppure la terminologia biblica» (ibid.), dal momento che anch’essa è sottoposto al processo di secolarizzazione e spesso le parole bibliche per il loro abuso si sono svuotate di significato. Si tratta in nuce del problema del linguaggio non-religoso proposto in Resistenza e resa (cfr. RR p. 370). ↩︎

  87. Cfr. ODB 6, p. 224. ↩︎

  88. Ibid. ↩︎

  89. Cfr. ODB 6, p. 225. ↩︎

  90. Cfr. ODB 6, p. 227. ↩︎

  91. Cfr. ODB 6, pp. 240ss. Le pagine dell’Etica relative all’assunzione di colpa sono tra le più sentite da parte di Bonhoeffer, che, scegliendo di rimanere in Germania durante la seconda guerra mondiale, decise di partecipare così al destino e alla colpa della sua patria (cfr. RR, p. 244). «Si tratta qui di accettare una responsabilità colpevole per passare — se possibile — dal mondo della maledizione a quello della benedizione. Il passo concreto fu l’entrata nella congiura per fermare il terrore omicida di Hitler; ciò significava: passare la porta, tra una colpa ostinata, tra la negazione della solidarietà a coloro che soffrivano in quel momento e la solidarietà della colpa con coloro che si accingevano all’ambivalente impresa del colpo di stato per strappare il timoniere dalla guida della macchina di distruzione» (E. Bethge, La colpa in Dietrich Bonhoeffer, in «Rassegna di teologia», 20 (1979), pp. 401-411, p. 409 s). ↩︎

  92. ODB 6, p. 242. ↩︎

  93. Come si è visto, lo scritto era stato fatto risalire agli anni 1939-40 e considerato il primo abbozzo dell’Etica, perché in esso si vedeva una maggiore affinità con il periodo di Sequela in virtù del primato assegnato al tema biblico. Dalle ultime ricerche sui manoscritti, invece, tenendo conto in particolare del tipo di carta usato (un tipo di carta di bassa qualità diffuso nel periodo di guerra) è risultato che il testo si colloca alla fine del 1942. ↩︎

  94. Idealismo è per Bonhoeffer sinonimo di soggettivismo e quindi di astrattismo. Ogni filosofia è per il teologo una forma di idealismo, poiché pone nell’io «non il punto limite, ma il punto d’origine del filosofare», elevandolo così ad assoluto (cfr. A. Gallas, op. cit., p. 66). ↩︎

  95. È utile ricordare che Bonhoeffer aveva tenuto un corso nel semestre invernale 1932-1933 su Gn 1-3, poi publicato col titolo Schöpung und Fall (Creazione e caduta). ↩︎

  96. «Il fatto che l’etica moderna sussuma i concetti di bene e di male sotto quelli di morale ed immorale, o di valore e di disvalore o — nella filosofia esistenziale — di essere autentico e inautentico, non fa alcuna differenza per la questione che qui ci interessa» (ODB 6, p. 264 nota 1). Tale chiarificazione è importante per comprendere l’atteggiamento di Bonhoeffer di fronte ai concetti filosofici: egli è guidato più dall’urgenza della questione in sé, che da un interesse filologico, che lo porti a fare dei distinguo↩︎

  97. ODB 6, p. 266. ↩︎

  98. ODB 6, p. 267. Di seguito Bonhoeffer riporta la frase di Nietzsche: «Ogni spirito profondo abbisogna di una maschera», spiegando che «tale maschera non è però finzione, inganno dell’altro, ma segno necessario della situazione di divisione esistente e quindi da rispettare». ↩︎

  99. ODB 6, p. 269. ↩︎

  100. ODB 6, p. 270. ↩︎

  101. Cfr. ODB 6, p. 274s. ↩︎

  102. Cfr. ODB 6, p. 72. ↩︎

  103. Il manoscritto presenta lo stesso tipo di carta di L’amore di Dio e lo sfacelo del mondo, per cui è assegnabile allo stesso periodo (fine 1942). ↩︎

  104. Cfr. ODB 6, p. 299s. ↩︎

  105. Cfr. ODB 6, p. 300. ↩︎

  106. ODB 6, p. 323. ↩︎

  107. Cfr. ODB 6, p. 325. Più sotto: «La spasmodica insistenza sul tema etico sotto forma di moralizzazione della vita è la conseguenza della paura di fronte alla ricchezza della vita quotidiana e dalla coscienza della propria incapacità, è la fuga in una posizione collaterale alla vita reale…». È evidente la corrispondenza con Nietzsche. La presenza di Nietzsche nell’opera di Bonhoeffer come termine di confronto spesso taciuto, ma costante è rilevata da un articolo di Peter Köster: Nietzsche als verborgener Anthipode in Bonhoeffers «Ethik», in «Nietzsches Studien», 1990 (19), pp. 367- 418. ↩︎

  108. «Sono così l’anziano e non il giovane, il padre e non il figlio, il padrone e non il servo, il maestro e non l’alunno, il giudice e non l’imputato, l’autorità e non il suddito, il predicatore e non il semplice membro della comunità ad essere autorizzati a parlare eticamente. È la tendenza dall’alto verso il basso, che qui si manifesta, tendenza estremamente ostica alla sensibilità moderna ma insita all’essenza del fenomeno etico» (ODB 6, p. 328). ↩︎

  109. La posizione di Bonhoeffer si oppone evidentemente al formalismo etico kantiano e richiama la concezione etica aristotelica. Aristotele, infatti, sostiene che l’argomento dell’etica deve essere «il bene propriamente umano» e contesta la teoria platonica del bene in sé, ancorando infine l’«agire bene» all’essere saggi, che è una disposizione dell’anima che si acquista con l’esperienza, cioè con l’agire stesso, non con la conoscenza intellettiva e l’applicazione di principi generali; pertanto, anche l’autore dell’Etica Nicomachea afferma all’inizio della sua opera che «il giovane non è un ascoltatore adatto delle lezioni di politica: egli infatti è inesperto delle azioni della vita, ed i ragionamenti «di questa scienza» procedono da queste e vertono intorno a queste» (Aristotele, Etica Nicomachea, I, 1, 1095a). Nella stessa prospettiva si trova Nietzsche, quando nelle Tre metamorfosi descrive come lo spirito da cammello diventi leone e abbondoni così quelle «cose pesantissime» che sono le leggi morali e trasformi il «Tu devi» in «Io voglio», per cui l’agire etico non è più un conformarsi a regole universali, ma l’espressione del proprio essere, che è identificato dall’autore di Così parlò Zarathustra con la volontà di potenza (der Wille zur Macht): cfr. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, tr. it. di S. Giametta, BUR, Milano, 1985, pp. 43-45. Infine Gallas nella sua recente monografia mette in luce il legame del principio di autorità, nella forma in cui viene presentato da Bonhoeffer, con la tradizione ebraica (cfr. Gallas, op. cit., p. 450). ↩︎

  110. Cfr. ODB 6, p. 332. ↩︎

  111. Cfr. ODB 6, p. 334. ↩︎

  112. A conclusione di Il «fenomeno etico» e il «fenomeno cristiano» come tema si trova uno scritto che porta il titolo Il comandamento concreto e i suoi mendati, che nell’edizione del 1962 si è considerato parte integrante del precedente, mentre nell’ultima è stato distinto, pur evidenziandone il collegamento. ↩︎

  113. ODB 6, p. 337. ↩︎

  114. Cfr. ODB 6, pp. 338ss. ↩︎

  115. È importante rilevare che un accenno alla dottrina dei mandati si trova già in Cristo, la realtà e il bene. In questo modo si conferma l’unità sostanziale dell’impianto dell’Etica↩︎

  116. U. Perone, Storia e ontologia. Saggi sulla teologia di Bonhoeffer, cit., p. 107. ↩︎

  117. Ibid., p. 108. ↩︎

  118. In una lettera all’amico Erwin Sutz del dicembre 1931 Bonhoeffer scrive: «La mia provenienza teologica si fa via via più sospetta — scriveva a Sutz già nel dicembre del 1931 — hanno un po’ l’impressione di essersi allevati una serpe in seno» (Scritti, p. 37). ↩︎

  119. Cfr. Bethge, pp. 75ss. ↩︎

  120. AE, p. 88. È da notare che tale definizione della filosofia, in particolare della metafisica occidentale, si ritrova anche in Heidegger, quando in Sentieri interrotti e nel suo Nietzsche parla del soggettivismo come malattia della pensiero dell’Occidente e causa del suo sfociare nel nichilismo. ↩︎

  121. AE, p. 108. La paradossalità dello statuto ontologico del soggetto barthiano è ben messa in luce da Bonhoeffer nel corso del semestre invernale 1931-1932, La teologia sistematica del XX secolo: «L’uomo non è per metà iustus e per metà peccator, ma l’uno e l’altro integralmente. Si deve parlare dell’ateismo dell’uomo anche nelle più alte manifestazioni morali, e della vicinanza a Dio anche degli atei» (Scritti, p. 230). ↩︎

  122. Cfr. ODB 6, pp. 364-369. ↩︎

  123. Gallas sostiene comunque che «il rilievo della dimensione etica è tale in Sanctorum Communio che soltanto dal punto di vista di una estrinseca definizione del genere letterario si può giustificare l’affermazione […] secondo cui Sanctorum Communio non è un libro sull’etica» (cfr. A. Gallas, op. cit., p. 47). ↩︎

  124. Si tratta di una posizione che deve molto alla teologia di Althaus e della scuola neoluterana di Erlangen, una posizione che Bonhoeffer stesso criticherà aspramente, già nel seminario del 1932 e rispetto a cui si porrà esattamente agli antipodi in Sequela, dopo che l’avvento del nazismo avrà mostrato tutta la pericolosità di questa soluzione etica, che alla fine arriva a giustificare qualsiasi ordinamento politico che sia sancito dal successo storico. ↩︎

  125. La conferenza si chiude con il ricordo del mito di Anteo, il gigante che perdeva le forze, quando non aveva il contatto con la terra. Cfr. Scritti, p. 63. ↩︎

  126. Cfr. Scritti, pp. 120-121. ↩︎

  127. Gallas, op. cit., p. 86. ↩︎

  128. «Per me il problema si acuisce sempre di più e in modo sempre più insopportabile. Recentemente ho predicato su 2Cron 20, 12 («Non sappiamo che fare: a te son rivolti i nostri occhi» — N.d.t.). Vi ho sfogato tutta la mia disperazione» scrive Bonhoeffer all’amico Sutz in una lettera del 17 maggio 1932 (cfr. Scritti, p. 130). ↩︎

  129. Cfr. Scritti, pp. 233-256. Il testo presentato è ricostruito sulla base degli appunti di uno studente, Wolf Dieter Zimmermann, integrati per la seconda parte con quelli di Jürgen Winterhager. ↩︎

  130. Scritti, p. 237. In una lettera all’amico Sutz dell’agosto 1932 si trova scritto: «In fondo tutto dipende dal problema dell’etica, cioè veramente dalla questione della possibilità dell’annuncio del comandamento concreto per bocca della chiesa […] mi sembra che per il pensiero teologico si tratti della domanda prima e del punto di partenza per tutto il resto» (cfr. Scritti, p. 132). ↩︎

  131. Si tratta di un articolo pubblicato nel 1923 su «Zwischen den Zeiten», la rivista dei teologi dialettici diretta da Barth. Lo scritto si inserisce nell’ambito di una discussione tra Gogarten e E. Hirsch, esponente della scuola neoluterana di Erlangen, sul tema dell’etica teologica. ↩︎

  132. Scritti, p. 247. ↩︎

  133. Da una lettera a E. Sutz dell’inizio agosto 1932: «In Cecoslovacchia ho tenuto una conferenza sul fondamento teologico di questo lavoro, cercando con questo di tranquillizzare la mia coscienza teologica, ma ci sono ancora in quella materia molti punti interrogativi. In fondo tutto dipende dal problema dell’etica, cioè veramente dalla possibilità dell’annuncio del comandamento concreto per bocca della chiesa» (cfr. Scritti, p. 132). ↩︎

  134. Scritti, p. 171. ↩︎

  135. Cfr. Scritti, p. 135. «L’invisibilità contro cui Bonhoeffer protesta non è quella di Dio nel mondo, ma quella dei cristiani e della chiesa» commenta Gallas, sostenendo che la protesta «non si dirige tanto contro la teologia di Barth, come è stato sostenuto […] quanto contro l’incapacità della Chiesa a chiamare i cristiani ad un’azione visibile nel mondo conforme al comandamento» (cfr. Gallas, op. cit., p. 150). ↩︎

  136. Gallas propone di situare dopo la conferenza di Ciornohorske Kupele il terminus a quo di questa «conversione», dal momento che in essa l’atteggiamento verso il “Discorso della montagna”, che pure è nominato varie volte, è comunque ancora di riserva (cfr. Gallas, op. cit., p. 121). ↩︎

  137. Dalla lettera a E. Sutz del 25 dicembre 1932: «All’inizio i ragazzi si comportavano come insensati […] Ma anche qui è stata utile solo una cosa, e cioè che io raccontassi ai ragazzi in tutta semplicità il contenuto della Bibbia, senza nessuna raffinatezza, e in particolare i passi escatologici. Sono proprio quelli con cui i negri si trovavano a fare i conti» (cfr. Scritti, p. 125 s). ↩︎

  138. Cfr. Scritti (Lettera ai Leibholz del 7.3.1940), p. 582. Barth pubblica nel 1940 il primo volume della seconda parte della KD (L’opera della creazione). ↩︎

  139. ODB 6, p. 214. ↩︎

  140. Cfr. ODB 6, pp. 217ss. ↩︎

  141. H. Pfeifer, Plasmazione della realtà. Un tentativo di comprendere l’Etica di Bonhoeffer in AA.VV., Dietrich Bonhoeffer. Dalla debolezza di Dio alla responsabilità dell’uomo, a cura di A. Conci e S. Zucal, Morcelliana, Brescia, 1997, pp. 229-252, p. 246. ↩︎

  142. Se non si tenesse conto di questo presupposto teologico, l’etica di Bonhoeffer potrebbe essere assimilata a quella hegeliana. In effetti il confronto con Hegel non è superficiale in Bonhoeffer, come testimonia l’ultimo seminario tenuto alla facoltà berlinese nel semestre estivo del 1933: Dietrich Bonhoeffers Hegel Seminar, 1933, nach den Aufzeichnungen von F. Lehel, hrs. von I. Tödt, Kaiser Verlag, Gütersloh, 1988 (a questo riguardo si veda: M. Bozzetti, Bonhoeffer ed Hegel. A proposito del seminario su Hegel tenuto dal *Privatdozent Dietrich Bonhoeffer*, in «Hermeneutica», Nuova serie 1996, pp. 155-170). La differenza sostanziale sta nelle premesse teologiche poste da Bonhoeffer, per cui l’agire umano non viene assorbito ed annullato in una struttura come quella dello spirito hegeliano. Anzi, in virtù dell’assunzione di responsabilità, che costituisce il punto centrale dell’etica bonhoefferiana, l’azione del’uomo rivendica la massima autonomia e indipendenza. Con l’agire responsabile l’etica bonhoefferiana sembra avvicinarsi piuttosto alla creazione di nuove tavole del superuomo nietzschiano che alla figura hegeliana del soggetto etico come «astuzia della ragione». Mancini scrive nell’introduzione all’Etica (tr. it. ediz. 1969) che «il concetto di responsabilità […] fa dell’azione […] un gesto creativo e originale» (cfr. E, p. XXXII). D’altra parte lo stesso Bonhoeffer indirizza a questa interpretazione, quando scrive all’amico Rössler: «È un fare nuovi decaloghi il dire la legge in termini concreti?» (cfr. Scritti, p. 136), dove il «dire la legge in termini concreti» coincide sostanzialmente con l’agire responsabile. ↩︎

  143. D’altra parte è proprio attraverso la libera assunzione di colpa che l’uomo si fa simile a Cristo, ponendosi al di là del bene e del male nella dimensione dell’amore e riproponendo lo «scandalo» della croce. ↩︎

  144. «L’etica non può iniziare con le concrete questioni di ciò che è prescritto, bensì necessita di una previa abilitazione» (Pfeifer, op. cit., p. 240). ↩︎

  145. Della differenza tra «natura» e «creazione» si è già detto: cfr. ODB 6, p. 146. ↩︎

  146. Di «etica delle situazioni concrete» parla Mancini sempre nell’introduzione all’edizione italiana dell’Etica del 1969, mettendo in luce la corrispondenza con la trattazione della casistica umana presentata da Lutero nel trattato sul commercio e sull’usura. Si veda inoltre l’articolo di G. Piana, L’essere di Cristo fondamento di un’etica della concretezze storica in Dietrich Bonhoeffer, in «Hermeneutica», Nuova serie (1996), pp. 123-148. ↩︎

  147. Il libro di Brunner Das Gebot und die Ordungen (Il comandamento e gli ordini), apparso nel 1932, interessò molto Bonhoeffer (cfr. Scritti, p. 130 s, 245, 248, 258, 289ss, 581). ↩︎

  148. Cfr. ODB 6, p. 48s. ↩︎

  149. Bonhoeffer si avvicina su questo punto al concetto di «ateismo postulatorio» di Hartmann, del quale legge in carcere la Systematische Philosophie (cfr. RR, p. 157, 173, 175, 182, 186). Per una presentazione approfondita del pensiero di Hartmann si rimanda a Antonio Da Re, Tra antico e moderno. Nicolai Hartmann e l’etica materiale dei valori, Guerini, Milano 1996. Perone, d’altra parte, parla di una «ontologia dell’essere creato» (cfr. Perone, op. cit., pp. 85ss). ↩︎

  150. Questo sembra essere anche il giudizio dell’autore, stando a quanto si legge nella lettera a Bethge del 15.12.1943 (cfr. RR, p. 232). ↩︎

  151. Cfr. RR, p. 287 (20. 2. 1944). ↩︎