Eudemoristica. L’eudemonologia e l’umoristica di Macedonio Fernández

Grande tra gli uomini e di gran terrore è la potenza del riso, contro il quale nessuno nella sua coscienza trova sé munito da ogni parte. Chi ha il coraggio di ridere, è padrone del mondo, poco altrimenti di chi è preparato a morire.

—Giacomo Leopardi, Pensieri.

Le rire est satanique, il est donc profondément humain.

—Charles Baudelaire, De l’essence du rire.

Le comique étant l’intuition de l’absurde, il me semble plus désespérant que le tragique.

—Eugène Ionesco, Notes et contre-notes, Expérience du théâtre.

1. Premessa

Macedonio Fernández ha dedicato a ciò che chiama “eudemonologia” ed “umoristica”, oltre a varie considerazioni un po’ sparse nei suoi romanzi e nei suoi scritti filosofici, due brevi trattati in cui sviluppa riflessioni rigorose e puntuali sui temi in oggetto. Nel tentativo di rendere più evidente il suo stile argomentativo ho cercato quindi di conservare il più possibile la struttura di questi due testi, incentrandovi la mia trattazione, nella quale mi sono proposto di evidenziare alcuni aspetti del suo pensiero e di esaminarne la coerenza rispetto alle conclusioni complessive.

Nella prima parte ho preso in esame la sua teoria “eudemonologica”, che è una teoria psicologica e morale originale e suggestiva, sebbene non del tutto convincente. Nella seconda parte ho invece illustrato la sua teoria su “l’umoristica”, teoria che propone critiche efficaci ad altre più note, dimostrandosi nel complesso — come ho cercato di mostrare — più pertinente e persuasiva di queste rispetto a ciò che si propone di spiegare, ovvero il “comico” e il “motto di spirito”.

Macedonio fa riferimento, nel suo breve trattato sull’umorismo, al pensiero di vari autori che si sono espressi su quest’argomento, ma non potendo, per ragioni di spazio, soffermarmi qui sulle critiche da lui mosse a tutte opere che prende in considerazione, ho preferito concentrare l’attenzione sul suo esame delle interpretazioni fornite, rispettivamente ne Il riso e ne Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, da Bergson e da Freud, sia perché sono le più conosciute sia perché sono quelle a cui Macedonio dedica l’analisi più articolata.

In una terza parte mi sono soffermato in particolare sul significato di ciò che Macedonio chiama “Belarte de la Ilogica” e sul suo ruolo nel quadro della sua estetica e della sua; mentre nell’ultima parte ho cercato di spiegare perché sia “l’eudemonologia” che “l’umoristica” rivelano — analogamente alla metapsicologia freudiana — una impostazione teorica di tipo “entropico”.

2. L’Eudemonologia di Macedonio Fernández

Non c’è nulla di più desiderabile di una vita piena, “di più definitivo di un presente ricolmo”. Una ricezione piena della vita è infatti, secondo Macedonio Fernández, “ciò che il presente chiede per farsi eternità” (EU, 16). La felicità sarebbe il modo migliore per conseguire una tale pienezza, ma né la storia né il progresso scientifico e tecnologico ci possono avvicinare al suo conseguimento, né farci nutrire fondate speranze di renderlo più probabile. La storia infatti narra “tanto fallimenti che vittorie e ogni vita individuale è un tessuto di perplessità e lucidità”; ciò che si chiama progresso, pur essendo un dato di fatto incontestabile, “è una complicazione crescente di piacere e dolore, di errore e verità, ma ”la vita“ continua ad essere una uguale possibilità di gioia e sofferenza e ”il mondo“ una uguale possibilità di cause di dolore e di piacere” (ivi, p. 17).

Poiché la vita non offre in generale più possibilità di piacere che di dolore e, oggettivamente, il mondo può essere definito come una uguale possibilità di cause di piacere e di dolore, la vita secondo Macedonio “non è né un bene né un male, la morte non è né migliore né peggiore della vita, e rinunciare a questa non è una perdita. In certi momenti l’esistenza è buona; in altri intollerabile” (ivi, p. 23).

Il problema fondamentale per l’eudemonologia — o scienza della felicità, cui Macedonio si dedica a lungo, tanto da indurre a credere che la considerasse una delle tematiche filosofiche fondamentali — sarà dunque quello di stabilire se potrà far sì “che ci sia una qualche probabilità che l’esistenza vissuta secondo le sue indicazioni contenga più benessere che sofferenza” (ibidem).

Macedonio tiene a precisare che quando parla di felicità non allude “a nessuna entità misteriosa, a nessun tipo emozionale, o stato speciale psicologico o fisiologico dell’uomo, ma a tutto ciò che comporta più gioia che sofferenza, di qualsiasi natura”; egli ritiene infatti che “il piacere sia tanto reale come il dolore e che raggiungano uguali intensità e durata”, e che "l’intensità e la durata debbano essere gli unici motivi delle nostre preferenze, prescindendo dalle loro qualificazioni: piacere e dolore egoista, nobile, ignobile, superiore etc. (ivi, p. 30).

La “felicità” non è “un’emozione particolare”, come la “contentezza” o “l’allegria”, ma costituisce la composizione e la risultante di tutti quegli “elementi che possono formare il piacere quotidiano, piaceri dell’attività, dell’affetto, dell’ambizione, della passione, della sessualità, della vendetta, etc. Non sono fautore — precisa al riguardo — di una distinzione tra piaceri superiori e inferiori, né credo che le inquietudini dell’affetto siano meno distruttrici della salute e della pace di quelle della vendetta. Le uniche differenze che hanno senso in materia di dolore e piacere sono l’intensità e la durata, qualità che si compensano l’un l’altra: un piacere di durata A e di intensità B è uguale a un piacere d’intensità A e di durata B. Lo stesso accade quando confrontiamo un piacere con un dolore. Nell’insieme di un’esistenza la felicità è aver gioito più di quanto non si abbia sofferto” (ivi, p. 55).

La sua concezione della felicità si contrappone a quella di Shopenhauer, pur condividendone alcune premesse. Secondo la tesi di Shopenhauer — scrive Macedonio — perché sia possibile che il piacere di ogni soddisfazione venga adeguatamente apprezzato “è sempre necessario qualche rinvio, o privazione, o fatica forzata, a seconda dei casi”; bisogna cioè “che per la privazione o il ritardo il desiderio s’intensifichi fino a divenire realmente un malessere, un dolore”. In questo modo, la soppressione momentanea di questo desiderio che si chiama soddisfazione potrà procurare una certa intensità di piacere (ivi, p. 28; cfr. MO, p. 414 e segg.; p. 421 e segg.).

Senza impegnarsi in un’analisi sistematica del pensiero di Shopenhauer, Macedonio concorda con lui nel ritenere che per una gran parte di piaceri sia “indispensabile la preesistenza del dolore” e che quanto più intenso sarà il dolore più intenso sarà il piacere della soddisfazione. Infatti:

“ogni cessazione di dolore […] si manifesta in forma positiva di piacere, che non è semplicemente la cessazione di uno stato [quello del dolore], ma la scomparsa di questo seguita immediatamente dall’apparizione dello stato contrario (quello del piacere) […], e tutti possiamo procurarci in qualsiasi momento un piacere imponendoci prima un dolore; per esempio posticipando il momento di coricarci o l’ora di una visita che desideriamo fare a un amico, o obbligandoci a eseguire un lavoro per poi usufruire del piacere della cessazione del lavoro forzato e della libertà da questa costrizione” (EU, 29).

In base a queste considerazioni, Macedonio giunge a riscontrare “una uguaglianza e una compensazione quasi assoluta nel destino di tutti gli individui sotto il profilo della felicità, qualunque sia la ricchezza, la salute, la capacità intellettuale, la capacità muscolare, il coraggio, l’istruzione, la bellezza personale etc., qualunque sia il grado in cui una persona possegga più di altre qualcuno di questi che chiamiamo beni” (ibidem).

Entro questo limite, che la dipendenza del piacere dal dolore impone alle nostre possibilità di raggiungere qualche felicità, e solo entro questo limite, possono valere delle regole in grado di favorire il conseguimento di un certo benessere, ma poiché l’osservanza di qualsiasi regola esige, senza alcuna eccezione, uno sforzo (il lavoro muscolare, intellettuale, di repressione delle emozioni o il coraggio, la soppressione o restrizione dei desideri o ascetismo) la prima missione dell’eudemonologia deve essere lo studio di come ricercare il piacere e poter evadere dal dolore; perché “il piacere è l’unico criterio inalterabile dell’esistenza” (ivi, p. 30).

Secondo Shopenhauer “vivere è avere sempre sete”, e questa sete “è il dolore prolungato o rinascente”. Sotto questo profilo, secondo la sua concezione della felicità, “i cinque secondi che s’impiegano nel bere un bicchier d’acqua atteso per un’ora rappresentano la posizione e la durata del piacere nella vita”. Ma colui che, secondo Macedonio, è il più grande dei metafisici, non è qui “né veritiero né sincero”, anzi, “ha giocato in questo punto con i suoi lettori; ha impiegato il suo buon umore per rendere di malumore l’umanità (ivi, p. 34). Al contrario, per Macedonio ”la vita contiene tanto male quanto bene“; per questo dichiara di non condividere alcun tipo di enfasi, tanto pessimistica quanto ottimistica, pur ritenendo comunque che, ”per quanto poco la vita possa tendere al piacere, meriti comunque di essere considerata desiderabile" (ibidem).

Se dolore e piacere sono entrambi dipendenti dalla volontà di vivere, e pur essendo il piacere in genere preceduto dal desiderio, questo non è di per sé, come pensa Shopenhauer, uno stato doloroso: “quando è nato da poco, quando incomincia a delinearsi nella coscienza, non sembra uno stato penoso, o, almeno, non lo è mai quando c’è la certezza o la prospettiva della sua soddisfazione immediata; non solo in tal caso non è penoso, ma è effettivamente gradevole; è un piacere emozionale forse superiore al piacere dell’istante stesso della soddisfazione del desiderio” (ivi, pp. 35-36).

L’errore di Shopenhauer sarebbe dunque quello di aver ritenuto che, essendo il maggior numero dei nostri piaceri necessariamente preceduto dal desiderio, sia anche preceduto dal dolore (cfr. ivi, p. 36). Per Macedonio, invece, “il desiderio e gli stati del desiderio (emozioni, sentimenti) costituiscono la quasi totalità della nostra vita affettiva (piacere-dolore) e sono quasi sempre subordinati, se non subordinati del tutto, alla legge di relatività” (ivi, p. 39). Secondo tale legge piaceri e dolori tendono a compensarsi a vicenda e non è possibile che gli uni prevalgano in misura sproporzionata sugli altri, la differenza del loro ammontare potendo essere solo esigua e provvisoria.

Nonostante la sua argomentata fiducia in tale relativismo psicologico, Macedonio non può tuttavia fare a meno di prendere in esame delle eccezioni: se infatti questa legge può essere ritenuta valida nel campo delle emozioni e dei sentimenti, esiste però almeno un’altra fonte che sembra sottrarvisi. Quando per esempio “un nervo è improvvisamente lesionato per un urto o un taglio, per un’alta temperatura, o il nervo visivo o uditivo è ferito da una luce o un suono molto intensi, il dolore che si prova non è stato preceduto da alcun desiderio, non è un desiderio contrariato. Qui si rompe la catena di relazione e compensazione; un mal di denti, di testa, una scottatura, una slogatura sono dolori che raggiungono intensità e durata maggiori; sono stati affettivi senza cessazione di piacere o contrarietà di desiderio” (ibidem).

Questi dolori, che Macedonio definisce “di sensazione”, non sembrano avere dei piaceri opposti altrettanto intensi in grado di compensarli, e qui emerge un problema che, se si vuol essere dei buoni eudemonologhi, non è a suo avviso possibile trascurare. Che piacere fisico di pura sensazione c’è che possa compensare, che possa sopportare la comparazione con uno di questi formidabili dolori fisici, come una slogatura, una scottatura estesa o la universalmente tradizionale estrazione dentaria?

Ci sono piaceri e dolori morali tanto intensi come questi, ma dove sono i piaceri di sensazione che possiamo gettare sull’altro piatto della bilancia? “ (ibidem). Si potrebbe misurare l’intensità di uno di questi dolori, così come si può misurare l’altezza degli alberi, misurando la lunghezza dell’ombra che proiettano dal futuro sul nostro presente. Quando ci aspettiamo un dolore in un futuro un po’ lontano, diciamo entro un anno, ”la sua prospettiva avvelena da lontano il presente, la sua ombra macchia la nostra coscienza attuale. Ma quali sensazioni d’intenso piacere potrebbero essergli opposte?

Nessuna: la terribile sensazione di una slogatura portata dal nervo alla coscienza non può essere paragonata a nessun piacere, né intenso né lieve“ (ivi, p. 40). Questi dolori infatti non possono essere compensati da piaceri altrettanto intensi, perché questi compensano già gli stati di disagio o sofferenza altrettanto acuti che gli hanno preceduti. Per esempio, ”l’intensa sensazione voluttuosa di un atto sessuale lungamente rinviato e bramato è la soddisfazione di un desiderio sollecitato per molto tempo dal tormento del suo rinvio: lo stesso diciamo della fame, della sete e dei desideri morali o emozionali (l’affetto, l’odio, il piacere di una vendetta per tanti anni differita). In tutti questi casi l’intensità del piacere che si sfrutta non fa che retribuire il molto che si è sofferto e pertanto non può essere conteggiato come compensazione di altri dolori" (ibidem).

Dove è allora possibile reperire una qualche forma di compensazione di questi dolori di sensazione tanto intensi?

Secondo Macedonio, tale compensazione può essere rintracciata solo “nei piaceri quotidiani di soddisfazione di desideri d’intensità normale, abituali, realizzati senza partecipazione, cioè prima che siano trasformati in dolori, immediatamente o quasi immediatamente dopo che sono giunti alla coscienza. Questi piaceri non sono preceduti dal dolore; possono, quindi, essere inscritti nella colonna dell’avere per compensare i dolori della sensazione” (ibidem). Di essi solitamente non ci rendiamo nemmeno conto, e ciò nondimeno esistono e accompagnano le nostre giornate. La loro somma può dunque costituire una credibile compensazione di quei “dolori di sensazione” di cui è impossibile trovare un piacere correlativo.

Per la legge di relatività, quindi, in qualsiasi condizione, individuale o storica, ci si possa trovare, secondo Macedonio i beni e i mali si compensano: per questo l’esistenza umana o animale in generale non può essere considerata né migliore né peggiore della non esistenza. A questo bisogna poi aggiungere che, “dentro una vita individuale, per la legge del relativismo psicologico, nessuno può gioire di più di quanto ha sofferto né può soffrire se non a condizione di aver gioito molto” (ivi, pp. 43-44). Qualsiasi regola eudemonica deve quindi essere circoscritta all’interno di tale relatività: se infatti “è possibile assicurare i buoni effetti più o meno immediati di alcune condotte o precetti”, per quanto riguarda gli effetti più distanti nel tempo, questi possono essere molto sfavorevoli allo star bene, soprattutto in virtù del relativismo edonico (ivi, p. 44).

Per questa ragione, le regole che Macedonio pensa di poter formulare non possono tendere “al conseguimento sistematico di nessuno di questi cosiddetti ”beni“”. Piuttosto, il suo primo suggerimento al lettore sarà quello di non invidiare “nessuna condizione né alcun carattere”, e, in secondo luogo, di tenere presente che, se attualmente soffre, “a lui è riservata tanta felicità come a qualsiasi altro mortale, senza bisogno che giunga a conseguire la gloria, la ricchezza, la bravura o la scienza che altri posseggono”; perché “soffrire ora è spargere il seme del piacere futuro” (ivi, p. 45).

Ogni uomo è infatti destinato a conseguire la sua dose di felicità, qualsiasi siano i suoi difetti di carattere, i suoi successi e i suoi fallimenti: “talvolta giungerà ad essa attraverso la realizzazione dei suoi desideri e altre attraverso la distruzione di essi a forza d’insuccessi, ma giungerà a essa indefettibilmente e pienamente a condizione che la sua esistenza vada avanti ancora alcuni anni, e senz’altro requisito che questo. Allo stesso modo tornerà a vivere miseramente dopo aver assaporato alcuni anni felici e ancora per la sola ragione che gioire è creare le condizioni necessarie per la sofferenza successiva, è seminare dolore futuro” (ibidem).

In base a queste considerazioni, la legge di relatività sembra fornire la stessa perentoria indicazione: “rallegrati se soffri”, “rattristati se sei felice”: perché l’esito del dolore è il piacere e l’esito del piacere è il dolore (ivi, p. 46).

Il mondo non è fatto “a misura” dell’uomo o dell’essere vivo:

la “vita” in generale e la vita umana sono accidenti che sono apparsi, persistono e possono sparire in qualsiasi momento, e l’illusione dell’adattamento progressivo della vita al mondo è una speranza puerile che svanisce col soffermare anche solo un istante il nostro pensiero su questa considerazione: che se la “vita” si evolve in seno alla realtà tendendo ad adattarsi ad essa, a sua volta, la realtà totale, parallelamente e con totale dimenticanza della “vita”, anche si evolve, in modo che quando la prima crede di aver fatto un passo verso l’adattamento, la realtà, per le modificazioni graduali o non graduali che costituiscono la sua propria evoluzione, si è allontanata e la vita scopre che si è adattata a ciò che era e non è più, che si è adattata al passato senza alcun vantaggio (ivi, pp. 46-47).

In questo modo Macedonio prende le distanze sia dall’ottimismo leibniziano che dal pessimismo di Shopenhauer e da quelle che considera le “indicibilmente sciocche e noiose lacrimosità di Leopardi” (ivi, p. 49). Pur essendo in parte redento dallo “stile squisito dei suoi versi”, Leopardi propone, con il suo continuo lamentarsi delle iniquità e villanie degli uomini, un genere di pessimismo che agli occhi di Macedonio è puerile e ingiustificato, perché in realtà “negli uomini c’è tanta bontà come malvagità, e nel mondo tanto dolore quanto piacere” (ibidem). Sotto l’aspetto eudemonologico, quindi,

la vita vale pochissimo o niente e tra esistere e non esistere la scelta è indifferente. Ogni vita, umana o animale, attuale o futura, è e sarà un campo di azione in cui alternativamente s’installano e dislocano il piacere e il dolore, per la legge psicologica di compensazione e relatività e per la legge cosmologica di costituzione e complessità dell’universo" (ibidem; cfr. TN, p. 106).

L’uomo vive e “si evolve in un mondo che ugualmente si evolve, cosicché quando avrà fatto un passo per adattarsi al mondo, questo si sarà distanziato, si sarà a sua volta evoluto, sarà cambiato, per cui quell’adattamento risulterà un non senso: si sarà adattato a uno stato di cose che non sarà lo stesso. E la relazione che sussiste tra l’uomo e il mondo è la medesima che intercorre tra i poteri dell’uomo e i suoi desideri: crescono le facoltà (per ora), ma parallelamente crescono i desideri, di modo che la proporzione tra desideri soddisfatti e desideri insoddisfatti si mantiene identica” (EU, pp. 54-55)

In questo senso la vita è caratterizzata dal continuo e quasi interamente vano tentativo di alterare, da parte degli esseri umani, questo ineludibile equilibrio, mentre sarebbe buona norma l’accettarlo senza recriminazioni per non aggiungere una ridondante disdetta e un superfluo rammarico al naturale gioco e alternanza di piacere e dolore, con la sola conseguenza di far pendere la bilancia a favore di quest’ultimo.

Questo equilibrio di fondo non esclude però che sia possibile,

all’interno del ciclo di una vita individuale, rompere in lieve misura la legge di compensazione e relatività per conseguire un poco più di gioia che di sofferenza e dispiegare un po’ più di attività intellettuale e passionale di modo che, in altro modo, si svilupperà l’individuo (ivi, p. 55).

Ma si tratta di un equilibrio che è comunque difficile volgere a nostro favore, e anche quando dovessimo riuscirci non potremo modificarlo in maniera rilevante. In fondo, per Macedonio il modo più sicuro per conseguire un simile vantaggio è morire in una condizione debitoria con la felicità, o creditizia con il dolore, auspicare cioè che la morte possa coglierci al culmine di una felicità prolungata: infatti “vivere poco o molto non significa nulla, perché la vita in sé non è un bene, e nessun destino è più invidiabile di quello di chi muoia prima dei venti anni” (ivi, p. 46).

Altrimenti, accettando di vivere, si potrà cercare di farlo al meglio solo imparando a godersi i piccoli piaceri dell’esistenza, come fumare un sigaro, vedere un amico, ammirare un’opera d’arte (cfr. ivi, p. 58) e rispettando alcune norme fondamentali, tutte rivolte a mantenerci attivi e propositivi sia sotto il profilo psicologico e intellettuale che sotto quello pratico. Sebbene infatti Macedonio ritenga che non ci sia relazione tra l’intensità della vita e la moralità o la felicità, pensa che ce ne sia una strettissima tra i desideri, la sensibilità, l’attività e il potere mentale e muscolare, giungendo a ritenere questa relazione quasi come un assioma biologico (cfr. ivi, p. 56). Per questo, tra le regole eudemonologiche da lui suggerite, avanza per prima quella di dedicarsi a qualche attività, di “compiere piccoli sforzi, di qualsiasi tipo, tendenti a compiere un’opera utile”, come “portare a termine un lavoro qualsiasi”, “fare visita a un malato”, “riordinare dei documenti”, perché “cominciare qualcosa è il miglior strumento pratico, il miglior riparo per la possibile felicità” (ivi, pp. 59-60).

Un’altra regola che suggerisce è poi quella di mantenere viva la nozione della risolubilità di ogni situazione mentale o pratica, conservando sempre massime e credenze che incitino all’azione, e una terza, collegata strettamente con le prime due, è quella di eliminare l’ozio, ovvero sviluppare la propria capacità di agire, di “chiarire le proprie idee”, di “correggere le proprie emozioni”, di “esercitare le proprie facoltà muscolari e intellettuali”, in quanto l’ozio non contiene né sviluppa alcuna capacità, né umana né animale (ivi, pp. 60-61).

La sua tesi definitiva consiste dunque nel sostenere che costituirebbe un atteggiamento saggio il cercare di “rimpiazzare per quanto possibile i dolori involontari — causati da eventi, in qualsiasi modo si siano verificati — con la sofferenza volontaria derivante dallo sforzo del lavoro psicologico” (ivi, p. 65), usando intelligentemente le nostre conoscenze per prepararci una riserva di energia in grado di farci meglio sopportare i dolori che non potranno evitarsi (cfr., ibidem). Ma ciò senza mai dimenticare la legge del relativismo edonico generale, perché solo se sapremo accettare consapevolmente e serenamente tale legge ci sarà sufficiente quanto può esserlo: avere una casa, magari con un po’ di terra, e relazioni cordiali con tutti coloro che la abitano ci consentirà di liberarci di ogni infermità, così come sarà sufficiente essere una persona giusta per avere una buona moglie e dei buoni figli e per non avere liti e nemici; e anche per godere con gioia, grazie all’esercizio di questa stessa virtù, di una buona salute (cfr. ivi, p. 67).

Certo, la teoria eudemonologia di Macedonio pare a volte non esente da qualche contraddizione e può sollevare non poche perplessità. Come si può, per esempio, affermare che la vita sia, nonostante la legge del relativismo edonico, comunque desiderabile (cfr. ivi, p. 34) e poi sostenere che debba ritenersi fortunato chi muore prima dei vent’anni? (cfr. ivi, p. 46). Forse Macedonio avrebbe potuto rispondere a quest’obiezione argomentando che la vita è sì desiderabile, ma non per ragioni edoniche, ovvero che lo è al di là o al di qua di qualsiasi considerazione eudemonologia, perché ci offre la possibilità di accedere comunque a l’unica forma di eternizzazione che sia concessa agli esseri umani: quella di chi è in grado di credere in un “almismo ayoico”, e cioè di desiderare e provare, anche solo per pochi attimi — come è possibile attraverso l’arte, o più stabilmente, come consente di fare la mistica — l’annullamento del proprio Io, o, come avrebbe detto Shopenhauer, di andare oltre il “principium individuationis”. In questo senso, se sotto il profilo edonico sarebbe preferibile morire prima dei vent’anni, perché a quell’età ci sono meno probabilità di trovarsi in credito con il piacere di vivere, in una prospettiva non eudemonologica, ma mistico-estetica, questa opzione risulta del tutto superflua, perché una tale dimensione non è più incentrata sull’Io.

Un’altra perplessità che potrebbe essere avanzata nei confronti della effettiva esistenza della legge del relativismo edonico potrebbe essere poi la seguente: se piaceri e dolori sono destinati a compensarsi nel lungo periodo, per quale motivo alcuni esseri umani hanno l’impressione di essere più spesso molto più felici di quanto non capiti ad altri? Una simile domanda pare tanto più giustificata in quanto la percezione della propria eventuale felicità o infelicità non sembra un aspetto accessorio e ininfluente nella valutazione dei nostri stati d’animo. Sebbene Macedonio non sembri fornire una risposta precisa a questa domanda, si potrebbe immaginare la sua risposta ricordando alcune sue considerazioni, come quella per cui nessuno dovrebbe sentirsi troppo in debito o in credito con la felicità, né ambire a condizioni di vita troppo diverse da quella in cui si trova, né quindi pensare di dover invidiare qualche condizione o carattere (cfr. ivi, p. 45). La ragione di ciò potrebbe infatti essere ascritta al fatto per cui le differenze nella percezione della propria condizione umana non sono tanto imputabili a fattori oggettivi interiori, quanto ad un diverso riflesso che la propria condizione ha presso gli altri. Potrebbe infatti dipendere dalla considerazione e dal diverso consenso che gli altri manifestano per la nostra condizione che noi possiamo percepirla più o meno soddisfacente, senza che venga tuttavia alterato in ciascuno l’equilibrio edonico fondamentale. Ciò concorderebbe del resto con l’opinione di Shopenhauer — la cui influenza aleggia in gran parte dell’opera di Macedonio — il quale, citando prima Epitteto (“Perturbant homines non res ipsae, sed de rebus decreta”), e poi Seneca (“Plura sunt, quae nos terrent, quam quae premunt, et saepius opinione quam re laboramus”), pensa che molte differenze tra i nostri modi di agire e di soffrire dipendano dal riflesso che certe situazioni dolorose hanno sulle nostre opinioni e negli altri, come indicherebbe il fatto che persino i bimbi, quando si fanno male, spesso non piangono subito, ma solo quando qualcuno incomincia a compiangerli (cfr. MO, p. 397).

Una terza obiezione — e forse la più consistente — che si potrebbe poi avanzare nei riguardi delle argomentazioni eudemonologiche di Macedonio potrebbe prendere le mosse dalla sua convinzione che i dolori di sensazione possano essere compensati dai piccoli piaceri quasi inconsapevoli che caratterizzano la vita di ogni giorno. Infatti, poiché tali piaceri non sembrano essere equamente distribuiti, e poiché ancora di meno lo sono i dolori di sensazione che dovrebbero compensare — che ad alcuni ne toccano di crudelissimi e ad altri di assai più sopportabili — l’equilibrio edonico pare destinato ad essere piuttosto diseguale in soggetti diversi, o almeno una mancata disuguaglianza sembra un’eventualità piuttosto casuale.

È vero che si potrebbe attribuire anche questa differenza ad un confronto indebito, che Macedonio intende scoraggiare, tra la propria condizione e quella degli altri, che noi possiamo infatti recepire solo dall’esterno, e quindi come una mera apparenza. All’interno dell’esperienza di ognuno, cioè, l’equilibrio edonico potrebbe essere conservato nonostante l’apparente discrepanza con quelli che negli altri si possono solo supporre. Macedonio ribadisce infatti, e in più occasioni, che proprio dal confronto con le condizioni in cui si trovano gli altri non si dovrebbero ricavare motivi di scoramento o afflizione. Tuttavia, l’elevata improbabilità di un’equa distribuzione dei dolori di sensazione e dei piccoli piaceri della vita rende poco credibile questa ipotetica difesa della legge del relativismo edonico, che difficilmente può sottrarsi a quest’obiezione: se infatti queste differenze ci sono, per ogni buon eudemonologo sarebbe scorretto il non volerle considerare nel computo generale della felicità che ci è stata assegnata, e siccome la loro esistenza è molto verosimile — perché se i piccoli piaceri della vita possono in linea di massima essere riscontrati, sebbene in misure diverse, in ogni esistenza individuale, i dolori di sensazione che dovrebbero compensare possono essere ampiamente difformi e sproporzionati, sia per intensità che per durata, da persona a persona — la legge del relativismo edonico risulta piuttosto problematica e poco verosimile.

Ma se è impossibile replicare in maniera efficace a questa obiezione restando in un ambito eudemonologico, il problema può essere posto e risolto diversamente dal punto di vista della metafisica e della mistica di Macedonio, del suo “almismo ayoico”, perché laddove si sia pervenuti — come per esempio anche il buddismo e Shopenhauer suggeriscono — all’annullamento della volontà di vivere e al superamento del “principium individuationis” (cfr. MO, 479, 485 e segg., 497 e segg., 517 e segg., 534 e segg.), o almeno alla mitigazione del suo potere pervasivo, la stessa contabilità regolata dalla legge del relativismo edonico risulterebbe superflua, perché l’Io cesserebbe di essere il registro in cui tale computo dovrebbe essere annotato, e il baricentro del cosmo spirituale di ognuno si sposterebbe in uno “spazio almico” universale in cui ciascuno occuperebbe una posizione solo provvisoriamente e prospetticamente individuale e peculiare.

Per questo motivo, si può ritenere che proprio dal fallimento della teoria eudemonologica di Macedonio, o almeno dalle perplessità che può sollevare, si possa essere risospinti verso la sua metafisica e la sua mistica, nonché verso la sua “umoristica” e la sua estetica, perché se la scienza della felicità ci può aiutare poco ad essere più felici, ed è semmai in grado di evitarci illusioni che possono renderci più infelici, “l’umoristica concettuale” e la “Belarte de la Ilogica” sono invece in grado di riorientare il soggetto in una prospettiva radicalmente nuova.

3. L’umoristica di Macedonio Fernández: le critiche a Bergson e a Freud

Pur riconoscendo notevoli meriti alle ricerche di chi si è occupato prima di lui del comico e del riso, Macedonio Fernández pensa che nessuno sia riuscito a individuarne il carattere distintivo.

Nei profondi studi che sono stati fatti da Kant, Shopenhauer, Spencer, Bain, Kraepelin, Bergson, Lipps, Voelkelt, Freud e altri, si è giunti sicuramente a fare molta luce sulla struttura schematica mentale delle cause psicologiche del riso“, ma poiché tali cause sono state enunciate solo intellettualisticamente nessuno di questi autori ha visto che ”il segno affettivo costante della tematica del riso è che l’essenza di quello che accade è l’allusione alla felicità“ […]. Sia che si tratti di ”una affezione che nasce dalla riduzione al nulla di una aspettativa interna“ (Kant); o della ”percezione repentina di un’incongruenza tra un’idea e l’oggetto reale“ (Shopenhauer); o di ”uno sforzo che all’improvviso si risolve in nulla“ (Spencer); o di ”un’idea elevata che si presenta come mediocre“ (Bain); o del ”calcolo meccanico sopra il vivente“ (Bergson); manca sempre l’elemento o condizione specifica del comico: che l’evento sia felice o in qualche modo ”alluda alla felicità" (HU, 261-262).

Ciascuna di tali dottrine, che analizzano l’elemento comico sia sotto il profilo intellettuale sia sotto quello affettivo, si fonda su un’ipotesi che la contraddistingue: Bergson, ad esempio, sostiene che l’essenza del comico è “la meccanizzazione del vivente” (cfr. RI, pp. 8, 13, 32, 46, 96); Freud invece spiega la comicità come “una forma di risparmio del dispendio psichico” (cfr. MI, pp. 216-217; 258). Né l’una né l’altra ipotesi, come del resto nemmeno quelle degli altri autori sopra citati, mostrano però secondo Macedonio

quale condizione fondamentale deve rivestire questo elemento comico, qualsiasi sia il suo tema concreto, ossia il segno affettivo non del riso, ma del fatto reale o mentale al quale l’evento comico o il motto di spirito si riferiscono (HU, 273).

È vero: “il riso è un piacere. Ma perché? ” — si domanda Macedonio — Bergson ritiene che costituisca l’effetto di un “accrescimento repentino nel tono di piacere della coscienza”(ibidem): ma perché questo piacere dovrebbe provocare il riso? E soprattutto, perché la sostituzione di ciò che è vivo con ciò che è meccanico dovrebbe suscitare piacere? (cfr. ibidem).

Il riso assolve secondo Bergson “alla funzione sociale di ridurre ciò che è meccanizzato, fatto, cristallizzato, automatizzato, perché la vita ha leggi diverse dall’inorganico e meccanizzarla è renderla imperfetta” (HU, pp. 262-263; cfr. RI, pp. 125-126e pp. 57-58). Questa spiegazione però non ci aiuta per Macedonio a spiegare il fenomeno della comicità, perché il vedere una persona che cade da una scala per aver mancato un gradino non produce di per sé alcun effetto comico, e si può sostituire molte volte un comportamento meccanico a ciò che è vivente senza essere indotti al riso, a meno che non si riesca anche, con tale sostituzione, ad accrescere la felicità, o almeno ad alludere a questa. Senza questa componente fondamentale una caduta, o qualsiasi altro imprevisto in sé sgradevole, dovrebbe procurarci piuttosto una reazione triste. Ciò dipende dal fatto che il sentimento della comicità è “dell’ordine della simpatia” e in molti casi equivale a “una manifestazione di tenerezza”. Macedonio lo considera “più che ugualitario”, addirittura “ammirativo, o almeno interamente altruistico”, perché “comico è tutto, e soltanto, ciò che è una percezione insperata di una felicità altrui” (HU, p. 263)

Non è quindi vero, come per esempio Bergson ha sostenuto, che a produrre l’effetto comico concorra sempre “l’intenzione implicita di umiliare, e quindi di correggere” (cfr. RI, p. 89; pp. 125-126). Al contrario, non essendo prodotto per umiliare, se producesse un’impressione penosa nella persona alla quale si riferisce il riso non raggiungerebbe i suoi fini, ovvero non li raggiungerebbe se non portasse con sé “il timbro della simpatia e della bontà” (HU, p. 263). Per esempio, si può ridere di un bambino che, molto agitato e risoluto, dice che va a suicidarsi e esce correndo, ma poi, passando dalla sala da pranzo, si ferma e incomincia a mangiare. La causa dell’effetto comico in questo caso “è la felicità con la quale il ragazzino muta risoluzione, optando per la più piacevole” (ibidem).

Lipps, Bergson e Freud “cercano di spiegare la tecnica o il procedimento del comico, compreso il movimento delle immagini e dell’attenzione, e tentano di ridurre a una teoria generale le formula della comicità”, ma non riescono, secondo Macedonio, a spiegare adeguatamente “la causa, non tanto del riso, ma del piacere del comico, del piacere del sentimento della comicità, non nel suo meccanismo psicologico, ma nel suo significato affettivo” (ivi, p. 264).

In parte Bergson si avvicina a una spiegazione corretta quando nota come, perché si abbia un effetto comico, sia intanto necessario non commuoversi, una certa “insensibilità dello spettatore” (cfr. RI, p. 5), ma non arriva comunque a sostenere la necessità “che il fatto sia in sé felice per chiunque debba avvertirlo” (HU, p. 273). Quando osserva come la condizione d’insensibilità dello spettatore sia necessaria e come solo là dove il prossimo smetta di commuoversi inizi la commedia (ibidem; cfr. RI, p. 88), Bergson pone l’insensibilità dello spettatore, quale causa negativa, al posto della causa positiva del riso, che è invece la sensibilità dello spettatore per la felicità altrui. Anche supponendo di accettare la spiegazione di Bergson per cui il comico sarebbe una meccanizzazione del vitale, dovremmo secondo Macedonio ancora chiederci perché questa dovrebbe risultare comica, “ossia piacevole, e non tragica o triste”. La spiegazione, a suo parere, non potrà consistere se non nell’allegria dell’utilità connessa a questa meccanizzazione; “quando questa meccanizzazione giungesse a risultare dolorosa, l’allegria per il bene che a questa persona deriva dall’abbandono di un automatismo già insufficiente o antivitale, sarà uno spettacolo gradito” (HU, pp. 273-274).

La comicità deriva quindi da un moto di “simpatia generata dalla percezione inaspettata di un’attitudine alla felicità” (ivi, p. 263), percezione che a sua volta fa seguito a uno stato d’interessamento o attenzione. Se infatti non ci fosse un effetto sorpresa, si tratterebbe semplicemente di una allegria derivante della percezione della felicità.

Anche per questo risultano ancora non vere le teorie secondo le quali il comico si fonderebbe su “un sentimento di superiorità”, o su un “desiderio di umiliazione”. Anzi: proviamo una sensazione di piacere ogni volta che percepiamo un’attitudine alla felicità o un “animo forte” (ibidem), capace di affrontare con leggerezza e disinvoltura le situazioni più incresciose.

Una simile percezione “può a volte sopraggiungere in modo sorprendente, e allora assume il carattere lievemente convulsivo del riso”, perché la comicità non è niente di più che “una delle forme della percezione dell’attitudine alla felicità”. L’inaspettato e il sorprendente “non sono indispensabili per l’allegria della percezione della felicità, ma lo sono per la comicità” (ibidem).

In altri termini, Macedonio distingue la “percezione simpatica di una sperata felicità altrui” dalla “percezione simpatica di una felicità altrui insperata. Questa è quella comica, che abitualmente si accompagna allo stato convulsivo per la ritenzione respiratoria che si chiama riso” (ivi, pp. 263-264). In questo senso, “ogni rallegramento inatteso è comico”, in quanto la comicità allude a un’allegria, per noi e per il nostro avvenire, dopo essere passata da uno stato di attenzione o d’indifferenza (ivi, p. 275).

Del resto, le persone di sani sentimenti riderebbero appena o non riderebbero per niente nel vedere una persona che cade, a meno che questa non abbia un’aria molto sussiegosa o supponente, e in ogni caso il riso dello spettatore è, per la definizione della comicità, un fenomeno secondario, perché la fonte della comicità, il suo tratto distintivo:

è il riso del soggetto […], il riso di chi cade, più di tutte le risa di chi presenzi alla caduta. Un simile riso costituisce “un’emozione primitiva, originaria”, un’emozione che rivela la pazienza intelligente e la volontà intelligente di una persona, la sua attitudine all’allegria, la supremazia del suo carattere sulla “contingenza stupida e nemica del cosmo”"(ivi, p. 276).

Macedonio prende in esame anche un altro esempio interessante proposto da Bergson:

se un certo movimento del braccio o della testa di un oratore si ripete periodicamente nello stesso modo, dovrò ridere contro la mia volontà, perché, invece di essere flessibile come la parola, il gesto si automatizza, cessa di trasformarsi e pertanto di vivere (RI, p. 23);

i gesti di un oratore, che di per sé non sono ridicoli, possono così indurre al riso a causa della ripetizione (cfr. HU, p. 266).

La comicità deriverebbe dunque, secondo Bergson, “dal fatto che ci si trovi di fronte a un meccanismo che funziona automaticamente; ‘non è più la vita ciò che mi trovo davanti, è l’automatismo che si istalla nella vita e prova a imitarla’ ” (ibidem). Macedonio considera però anche questa spiegazione insoddisfacente, ritenendo che la ripetizione dei gesti di un oratore non sia di per sé comica, perché è normale che il repertorio di ogni oratore sia costituito da pochi gesti; “l’effetto comico — sostiene invece — è insito nei ”gesti inopportuni, incoerenti rispetto a ciò che si sta dicendo“, quando ”l’automatismo si prende gioco dell’oratore, lo rende burattino“, mettendo così in luce la sua ”mancanza di sincerità“. Può esserci felicità nello scoprire un mistificatore e nello smascherare un ipocrita: ”ma il comico non è il mero automatismo, quanto piuttosto il carattere piacevole di quell’automatismo e della situazione rispetto a noi" (ibidem).

Anche le spiegazioni fornite prima da Bergson e poi da Freud di un famoso esempio proposto da Pascal non sembrano a Macedonio convincenti. Pascal aveva notato come due facce, nessuna delle quali fa ridere per sé stessa, messe accanto possono provocare il riso per la loro inaspettata somiglianza: secondo Bergson questo dipende dall’inconscia convinzione che la vita non debba mai ripetersi, riproponendo in questo modo la sua “la sua idea secondo la quale, laddove c’è ripetizione, somiglianza completa, intravediamo immediatamente il meccanico che opera dietro il vivente; pensiamo a due entità dello stesso marchio: a un procedimento industriale. ”La deviazione della vita verso il meccanico: è in questo la vera causa del riso! “” (ibidem; cfr. RI, p. 23).

Viceversa, Macedonio crede che in questo caso l’allegria scaturisca “dalla rivelazione della ricchezza dell’accadere. C’è allegria, ma non comicità; è un sorridere ottimistico per il piacere, per la compiacenza, perché ci si presenta un segnale della varietà, sebbene si manifesti nella ripetizione. Quando si ripete una combinazione molto complessa, qual è un volto o, nel gioco, una serie di venti numeri, si amplia la nozione di Possibilità, si allontana la nozione di Necessità e di Limitazione” (HU, p. 267). La somiglianza tra volti può generare allegria e non tristezza perché, pur essendo vero che la dignità della vita può risultare menomata dal supporla meccanizzata, la ripetizione o standardizzazione della vita umana comportano una elevata dose d’improbabilità e accrescono quindi “l’impressione dell’ampiezza del possibile” (ibidem).

Ma non solo: una tale circostanza può infatti suggerire l’idea singolare dell’esistenza “di una sola psiche con più corpi”. Il caso proposto da Pascal sarebbe cioè comico anche perché potrebbe indurci a sospettare di trovarci di fronte “a due corpi con la stessa psiche”(ivi, pp. 267-268). Del resto, Macedonio dichiara, coerentemente con la sua metafisica e con la sua psicologia, di aver spesso pensato alla possibilità che vi siano “varie figure corporali con la stessa persona psichica” (ivi, p. 268). Ma il motivo principale del riso rimane in questo caso il fatto che la somiglianza molto accentuata è rara, e quindi prospetta la sorprendente ampiezza del possibile, “e poiché la varietà è un piacere — sebbene lo sia anche l’uniformità — e il fatto che esistano molti esseri identici non limita la varietà, si produce una sorpresa gradita. L’identità, quando è rara, aumenta la varietà; la varietà non sarebbe assoluta se non esistesse la possibilità dell’identico” (ibidem).

Prendendo poi in esame la posizione di Freud, Macedonio ricorda come questi preferisca, piuttosto che parlare di “meccanizzazione”, come fa Bergson, “affermare che la causa del riso è la ”degradazione dello stato animato a stato inanimato“” (ivi, p. 267; cfr. MI, p. 231), e ciò perché secondo lui “ci sentiamo delusi quando, come conseguenza di una totale identità o di una ingannevole imitazione, risulta superfluo il nuovo dispendio che ci proponiamo di realizzare. Questa delusione comporta una diminuzione della carica psichica e il dispendio dell’attesa divenuto superfluo è scaricato attraverso il riso” (HU, p. 267). Tra parentesi, però, Macedonio nota a questo riguardo “che la degradazione di uno stato di attesa a un vuoto o a un nulla può originare piacere, ma non la degradazione di una persona o della dignità, né quella dello stato animato a stato inanimato. La verità è il contrario: la comicità si produce a condizione che non si verifichi nessuna degradazione di valori” (ibidem).

Ne Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio Freud considera la comicità e il motto di spirito come dei metodi “per ottenere piacere estraendolo dalla nostra stessa attività psichica”, ovvero come mezzi “per ristabilire, con un qualsiasi pretesto, un buono stato d’animo (euforia), qualora esso non sia una disposizione generale della psiche”. In questo senso — ci ricorda Macedonio citando Freud — possiamo ridere “per il carattere inutile ed esagerato dei movimenti altrui, se confrontati con quelli che avremmo eseguito nello stesso caso”. Ciò dipenderebbe dal fatto per cui, di fronte “a un movimento inadeguato ed eccessivo della persona osservata, l’incremento del nostro dispendio per la comprensione è represso nell’atto, cioè, dichiarato superfluo nello stesso momento della sua mobilitazione, e resta libero per un diverso impiego o, eventualmente, per essere scaricato attraverso il riso. Di questo tipo sarebbe, coadiuvando altre condizioni favorevoli, la genesi del piacere prodotto dai movimenti comici: un dispendio di innervazione divenuto inutile, in quanto in eccesso, nella comparazione del movimento altrui con il proprio” (ivi, p. 270; cfr. MI, p 216).

Tuttavia, pur ammettendo che Freud riconosce in questo modo alcune condizioni della genesi del piacere comico, che deriverebbe dalla “differenza del dispendio psichico della rappresentazione”, egli non va, secondo Macedonio, fino in fondo nell’esame del problema, proponendo una soluzione complessivamente inadeguata e incorrendo nello stesso difetto di altre teorie classiche della comicità, come ad esempio quella di Lipps, perché dimentica di evidenziare l’essenza stessa della comicità. Infatti, pur potendosi sostenere — come secondo Macedonio fa Lipps ne I fondamenti dell’estetica — che il comico deriva da un contrasto di rappresentazioni, bisognerebbe poi ancora precisare, in modo per la verità un po’ tautologico, che questo vale solo quando tale contrasto produca un effetto comico e non di altro genere (cfr. HU, p. 270).

Analogamente, se si sostiene con Lipps che il sentimento del comico deriva dalla delusione provocata da qualcosa di atteso, ciò risulta vero — come chiarisce Freud — solo nel caso in cui la delusione non sia dolorosa. Sotto questo profilo sembrerebbe che, escludendo il caso della delusione dolorosa, egli si sia avvicinato, rispetto a Lipps, a una spiegazione corretta del comico.

Tuttavia, precisa Macedonio, in questo modo non viene comunque fornita la formula positiva della comicità: Freud ritiene infatti che solo accettando la sua teoria, per la quale “”il piacere comico nasce dalla differenza che risulta dal confronto dei due dispendi’, si possa risolvere il problema della genesi del piacere comico; il piacere comico e l’effetto in cui si manifesta — ossia il riso — non possono scaturire se non quando la differenza divenga inutile e, pertanto, suscettibile di scarica, ma circostanze speciali devono intercedere affinché quel processo si verifichi“”. I questo modo però Freud sembra trascurare il fatto che, “se sono innumerevoli i casi nei quali, nella nostra vita rappresentativa, nascono tali differenze di dispendio, in rapporto sono, invece, rari quelli in cui le stesse producono comicità” (ivi, p. 271; cfr. MI, p. 240).

Macedonio riassume poi quelle che sono per Freud le condizioni essenziali per discernere la comicità occasionale; e cioè:

a) Lo stato d’animo sereno, che ci rende “disposti a ridere”; b) L’aspettativa del comico; c) L’assenza di mediazione di attività spirituali — lavoro intellettuale, riflessione astratta, etc., — che implichino condizioni sfavorevoli, perturbazioni della scarica; d) L’assenza del sovraccarico prodotto dall’attenzione; la possibilità della produzione del piacere comico scompare quando l’attenzione si fissa proprio sul confronto dal quale la comicità deve scaturire; e) Il processo comico non deve generare la nascita simultanea di altri sentimenti intensi; in tal caso resta esclusa, infatti, la scarica della differenza produttrice di piacere; f) Inoltre, lo sviluppo del piacere comico può essere facilitato da qualunque altra aggregazione gradevole, come per una sorta di effetto di contatto“ (HU, p. 271). Al termine di quest’elenco Macedonio precisa però che, in questo modo, Freud non fa altro che ”reiterare un elemento comune a tutta la vita mentale: qualsiasi stato può interrompere o essere interrotto da un altro, a seconda della sua intensità; se sono triste, non rido per una barzelletta; se la barzelletta allude a qualcosa di cruento, posso non ridere nonostante io non sia triste, ecc" (ivi, pp. 271-272).

I filosofi e gli psicologi che hanno studiato la comicità avrebbero dunque ripetuto, “con parole diverse, e come se fosse una caratteristica dell’emozione comica, quella che è una nota comune alla vita psichica. Dire ”rido solo quando ho l’umore adatto“ è legittimo come dire che ”piango solo quando ho l’umore adatto“, ecc.; cioè, uno stato d’animo permane nella coscienza finché non viene superato in intensità da un altro. Se la tematica del comico evocasse elementi lugubri o sinistri, il motto di spirito, senza smettere di essere tale, se così si può dire, fallirebbe come stato emotivo piacevole. Ma ciò che è vano, perché comune a tutta la vita psichica, è affermare che qualcosa sia un motto di spirito o comicità in base alla circostanza di un preesistente buon umore o all’assenza, nella simultaneità psicologica del momento, di emozioni o dell’aspettativa di conseguenze penose (cfr. MI, p. 241). In questo modo, potremmo dire che un uomo si irrita quando lo ingiuriano, a meno che non lo paghino per lasciarsi ingiuriare (come i buffoni), o che un uomo soffre quando lo picchiano, a meno che non sia masochista, ecc. Insomma, se gli autori si riferissero all’esclusione di note malinconiche o dolorose nel tema della comicità, avrebbero ragione; ma richiedere condizioni di spirito favorevoli o allegre per il motto di spirito è una delimitazione non necessaria, giacché ogni emozione si manifesta allorché non è dominata da un’altra emozione, sensazione, cenestesia o desiderio più intensi. Ogni emozione si manifesta quando non vi è, simultaneamente, un motivo di coinvolgimento più importante; in compenso, è necessario affermare che il fatto o tema deve in qualche modo alludere alla felicità: la percezione di un automatismo risulta comica quando non implica un risultato dannoso; riderò di una caduta benigna, e non di una caduta a mare, sebbene entrambe siano il risultato di un’andatura automatica” (HU, pp. 272-273; cfr. MI, p. 241).

Dunque, per Macedonio noi possiamo simpatizzare solo “con un’avversità benefica”, che diventi in qualche modo vantaggiosa per la persona malcapitata . È comico “ogni rallegramento non atteso, e ancor più se ci si aspetta il contrario”, perché “la comicità allude a un’allegria per noi, per il nostro avvenire, passando dall’indifferenza, o insipidezza, all’allegria, attraverso l’eccitazione preparata dall’attenzione o dall’intimidazione” (HU, p. 275).

Ma quando da un dato evento imprevisto deriva un danno non c’è comicità, perché viene a mancare l’allusione alla felicità. Colui che contempli con soddisfazione una caduta dolorosa potrebbe provare il piacere della crudeltà, o anche ridere per lo spavento, ma non sarebbe un riso comico, perché questo richiede comunque un’allusione alla felicità anche di chi scatena il riso. Quello comico è infatti solo uno dei vari tipi di riso possibili, e precisamente quello che è accompagnato da un’allusione alla felicità.

Un individuo può riuscire a procurarsi del piacere anche sminuendo qualcuno, o mancandogli di rispetto, escogitando un motto adeguato alle circostanze. Può così difendersi e mortificare, interrompere un piacere e convertirlo in dolore. La spiegazione fornita da Freud di questo fenomeno, che definisce come “motto di spirito tendenzioso”, s’incentra sull’idea che in questo modo si viene a liberare “il piacere attraverso la rimozione della coercizione”; il motto di spirito tendenzioso infatti “fortifica le tendenze al cui servizio si pone, fornendo loro ausili che derivano da sentimenti repressi, o si mette apertamente al servizio di tendenze represse” (ivi, p. 281). Ma:

in questo caso non si tratta — si domanda Macedonio — semplicemente del piacere della vendetta? E di quale natura è quello stato latente di vendetta, prima di attuarsi nel motto di spirito? […]. Che differenza c’è tra picchiare e infamare? Per l’offeso, nessuna (ivi, 282).

In questo caso siamo infatti di fronte a un genere di piacere, ed eventualmente di riso, non comici, derivanti da stati d’animo incompatibili con la comicità.

L’ipotesi generale avanzata da Freud per spiegare, sebbene in modi anche diversi, il piacere derivante dal motto, dall’umorismo e dal comico si basa sul concetto di “risparmio del dispendio psichico”. Così infatti Freud sintetizza il proprio pensiero nella pagina finale del suo saggio:

Il piacere del motto di spirito ci è parso sorgere dal dispendio di coercizione risparmiato, quello della comicità dal dispendio di rappresentazione (del carico) risparmiato, e quello dell’umorismo dal dispendio di sentimento risparmiato. Nei tre meccanismi del nostro apparato psichico il piacere proviene, dunque, da un risparmio, e tutti e tre coincidono nel costituire metodi per riconquistare, estraendolo dall’attività psichica, un piacere che si era perso proprio a causa dello sviluppo di questa attività. Dunque, l’euforia che tendiamo a raggiungere attraverso queste modalità non è altro che lo stato d’animo di un periodo della nostra vita nel quale potevamo portare a compimento il nostro lavoro psichico con scarso dispendio, cioè, lo stato d’animo della nostra infanzia, nella quale non conoscevamo il comico, non eravamo capaci di dire motti di spirito e non avevamo bisogno dell’umorismo per essere felici (ivi, p. 286; cfr. MI, p. 258).

Una volta preso atto che Freud insiste a più riprese nell’attribuire il piacere di un motto alla sua capacità di procurare un risparmio di dispendio psichico, Macedonio si chiede se si possa considerare il piacere derivante dalla soddisfazione di un desiderio come una forma di risparmio: realizzare l’atto sessuale o l’atto di alimentarsi sarebbero dunque un modo per risparmiare? O non piuttosto, come la soddisfazione di qualsiasi tensione o appetito, un piacere? E in questo caso, quello derivante dal motto deriverebbe da un semplice “sfogo”, come la teoria freudiana sembra suggerire, in quanto uno sfogo comporterebbe un risparmio di tensione? Se così fosse, obietta Macedonio, ogni individuo potrebbe dire a se stesso un motto di spirito, o anche un’ingiuria qualunque, procurandosi una grande soddisfazione. Ma non è così, e non lo è perché siamo piuttosto di fronte al “piacere di danneggiare”, ovvero al piacere derivante dal fatto che la calunnia possa oltraggiare un’altra persona (cfr. HU, p. 282).

Tanto per la formazione quanto per il mantenimento di una coercizione psichica è necessario, secondo Freud, “un dispendio psichico”. L’apporto di piacere di un motto deriverebbe dunque da un dispendio psichico risparmiato. Macedonio invece, in modo più semplice e usando un’espressione più direttamente pertinente all’esperienza dello stesso fenomeno, lo spiega individuando nel “piacere di risparmiare un dolore” l’origine dell’effetto comico in chi lo produce, mentre per lo spettatore esso sarebbe provocato dal “piacere della percezione del piacere, con sorpresa” (ibidem).

Quando un individuo dice un motto di spirito è come se picchiasse o ingiuriasse: è secondo Macedonio “un modo indiretto per liberarsi da un dolore, per soddisfare un desiderio di vendetta”; ma perché l’effetto del motto sia comico bisogna che lo spettatore lo percepisca come scherzo, vi deve essere cioè “la percezione del piacere, simpatia per la vendetta verbale: il piacere dell’inattesa percezione del piacere altrui” (ivi, p. 283).

Pur riconoscendo a Freud il merito di avere profuso onestamente i propri sforzi per spiegare i fenomeni in questione, Macedonio pensa che a volte la sua terminologia — come del resto anche quelle proprie di altre dottrine sul comico e il motto di spirito — “non sia la più adeguata e non favorisca la comprensione dei fatti”. Invece di dire “risparmio di dispendio psichico o di dispendio di rappresentazione” si potrebbero infatti usare espressioni più semplici, più aderenti all’esperienza di ognuno, come “risparmio di sforzo o anche risparmio di sofferenza”: in questo modo aderiremmo infatti “maggiormente ai processi psichici e a una semplice e universale terminologia”. In altri termini, certe denominazioni freudiane gli sembrano fuorvianti, oltre che piuttosto vaghe, come la stessa espressione “dispendio psichico” (ivi, pp. 286-287).

Venendo dunque a illustrare il proprio modello esplicativo, Macedonio si sofferma su un famoso motto di Heine, che anche Freud esamina accuratamente. “Si tratta di un tale di Amburgo — scrive Macedonio — chiamato Hirsch Hyacinth, che, vantandosi della sua amicizia con il barone Rotschild, dice: ”Come è vero che da Dio deriva il bene, una volta ero seduto vicino a Salomon Rotschild, che mi trattò da pari a pari, molto familionarmente“ (Reise-bilder)” (ivi, p. 287).

Freud interpreta l’efficacia di questo motto di spirito attribuendone l’origine a una “condensazione con formazione di sostitutivi”: “familionar” è la parola mista a cui sarebbe a suo avviso riconducibile l’effetto esilarante. Per Macedonio invece “il divertimento sta nella rassegnazione o modestia di colui che riferisce la situazione, cosciente del suo carattere umiliante. La buona facoltà dell’umiltà gli permette di trovare piacere persino nel racconto della sua propria umiliazione”. Quando infatti “il narratore pronunzia ”famili“ suggerisce all’ascoltatore un’idea di parità, ma allorché aggiunge ”onarmente“, quando cioè ”costruisce una parola comprensiva di due opposte concezioni — tratto familiare e tratto milionario — lo fa ricredere bruscamente“. Così il narratore, giocando con il lettore attraverso un’aspettativa fallita e un assurdo grammaticale e logico, è in grado di provocare nell’ascoltatore una tonalità emotiva di piacere che secondo Macedonio deriverebbe essenzialmente dal suo ”atteggiamento di comodo cinismo“, dalla sua ”tranquilla rassegnazione all’umiliazione" (ivi, pp. 287-288).

Sebbene questo motto di spirito giochi anche “con l’idioma, che è un’esibizione di abilità sempre gradita”, Macedonio sottolinea l’importanza che l’espressione “familionarmente” non intristisca gli ascoltatori o i lettori, e coglie l’occasione per precisare la distinzione tra la comicità e l’ironia, o il sarcasmo, dove manca proprio ciò che costituisce un requisito essenziale della comicità, ossia un’allusione alla felicità. Mancando questa, verrebbe a mancare l’elemento fondamentale. Sarcasmo, satira e ironia non fanno parte, in senso stretto, del genere della comicità, sebbene possiedano alcune delle sue caratteristiche, come la sorpresa e il giocare con il lettore (cfr. ivi, p. 288).

Il caso proposto da Heine e analizzato da Freud ci presenta all’inizio, secondo Macedonio, “un uomo che si rifugia nel suo sistema di umiltà” (ibidem). Subito dopo però, quando sta per dire che Rotschild lo ha trattato “familiarmente” il personaggio sembra liberarsi della sua difesa, “ma si corregge immediatamente, mostrando ingegno e una condotta utile”. Se si fosse infatti limitato a dire che Rotschild lo aveva trattato familiarmente “non ci sarebbe stata altra stranezza che la benevolenza o la squisitezza di Rotschild, o quella del cinismo del povero tizio di Amburgo” (ibidem), mentre in questo caso “il piacere di vedere quell’uomo si accompagna alla convulsione del riso per l’inaspettato, e l’aspettativa c’è da quando si ode l’inizio della parola” (ivi, p. 289), perché unendo i due vocaboli “il personaggio desiste e sfrutta la similitudine fonica per mantenersi su una linea di condotta umile. Proprio quando sta per darsi importanza, cambia rotta e si ridimensiona, riuscendo a trovare la parola giusta”, e inducendo così l’ascoltatore ad apprezzare il suo ingegno e la sua rapidità mentale, oltre che la sua spontanea modestia. Con questa espressione egli ha infatti mostrato di saper accettare serenamente uno stato di cose e ha svolto “un perfetto esercizio di umiltà”, di cui il lettore potrà apprezzare l’esito felice. Pertanto, a differenza di quanto sostiene Freud, non è dalla condensazione operata con la parola ‘familionarmente’ che deriva l’efficacia comica del motto. Questa può forse costituire una illustrazione del meccanismo che ha permesso di escogitare quell’espressione originale, ma il suo effetto comico dipende piuttosto da “ciò che essa suppone nella coscienza di chi la crea” (ibidem).

4. Il “comico” e “la Belarte de la Ilogica”

L’interesse mostrato più volte da Macedonio per le dinamiche e le cause dell’umorismo e della comicità sono strettamente collegate con la sua metafisica e la sua estetica. In particolare, ciò che lui definisce “umorismo concettuale” costituisce una delle modalità privilegiate per conseguire quello “spiazzamento dell’io” che dovrebbe a suo avviso essere perseguito da ogni Belarte. Ma qual è l’effetto coscienziale, “genuinamente artistico — ci chiediamo con lui — prodotto dall’umorismo concettuale? L’Assurdo creduto vero, o il miracolo dell’irrazionalità, che per un istante libera lo spirito dell’uomo dalla dogmatica e oppressiva legge universale della razionalità. Sebbene la ”razionalità“ abbia una risonanza affettiva positiva, in quanto sinonimo di sicurezza generale della vita e del comportamento, tuttavia, se viene posta come legge universale inesorabile, rappresenta un limite alla ricchezza e alle molteplici possibilità della vita. Tale limitazione, come qualsiasi altra, genera nella coscienza una risonanza affettiva negativa. ”Varietà“ e ”libera possibilità“ si rivestono invece di una tonalità ottimista; a questa tonalità tematica, si aggiunge, come si è già detto, il fatto che l’autore gioca, o meglio riesce a prendersi gioco del controllo più attento e universale della nostra vita mentale. Questo prendersi gioco ha una tonalità positiva in quanto gioco, sebbene a nostre spese (ma a un costo assolutamente inoffensivo: un istante di credulità nei confronti dell’assurdo), e in quanto l’autore dispiega una grande facoltà, una sottile e invidiabile arte dell’inganno; qualsiasi facoltà è desiderabile e ogni dispiego di facoltà è uno spettacolo gradito” (ivi, pp. 302-303).

Alla luce di queste considerazioni si può facilmente comprendere perché secondo Macedonio sia un bene che “un procedimento artistico commuova, turbi la nostra sicurezza ontologica e i nostri grandi ‘principi della ragione’, la nostra sicurezza intellettuale” (ivi, p. 303). Ma come è possibile che tali turbamenti siano considerati un bene? Se per esempio, “grazie ai comportamenti o ai discorsi del personaggio di un racconto, si riesce, per un istante, ”a far sì che il lettore vivo si crei come personaggio privo di esistenza, egli sentirà la liberazione dalla morte; cioè, la sua nozione della morte diventa poco consistente, giacché il credersi morto fa parte della sua esperienza, insomma della sua vita, laddove credere è vivere“ (ibidem). Allo stesso modo, in quella che Macedonio chiama ”Illogica dell’Arte“ o ”Umorismo Concettuale“, ”lo sbaragliamento di ogni guardiano intellettivo della mente del lettore, grazie al credere per un istante nell’assurdo, lo libera definitivamente dalla fiducia nella logica", da quella stessa logica che ci ricorda ogni giorno che dobbiamo morire e che non c’è effetto senza causa (ibidem).

In conclusione, Macedonio osserva quindi che un motto di spirito verbale, (a suo parere l’unico veramente artistico, in quanto “non realistico”), deve contenere essenzialmente i seguenti elementi: “1) un assurdo assoluto al quale credere, 2) l’assenza di elementi dannosi o depressivi, 3) la previa e implicita promessa di comunicare qualcosa di importante e razionale, 4) il piacere, senza riso, ma con allegria, scaturito dalla liberazione dalla logica, e il piacere, con riso, derivato dal fatto di essere stati burlati ingegnosamente dall’autore. Il solletico scherzoso risiede nel fatto che la gente sorprende se stessa in uno stato di fragilità mentale. Il motto di spirito verbale è, dunque, l’arte di far credere, per un istante, all’assurdo; ci procura piacere in base all’ammirazione per l’intelligenza — il piacere intellettuale della simpatia. L’assurdo è un contenuto mentale non rappresentabile, un contenuto assente, carente. Tale assurdo o contraddizione funziona dopo un’aspettativa di intellezione; è un furto intellettuale, con caduta delle immagini, dei concetti, dei pensieri, imbevuti di affettività durante l’attesa” (ivi, p. 304).

C’è quindi a suo avviso da stupirsi che “Kant abbia proposto e Spencer ratificato la definizione del comico come un’aspettativa fallita: questa, infatti, potrebbe essere la definizione, anche, della tragedia”. È strano cioè “che uno dei grandi capitoli del piacere umano, quali sono la Comicità e il Motto di spirito, non abbia fatto pensare che la sua tematica debba comportare, essenzialmente, il riferimento alla felicità, al piacere”. Nel motto di spirito, infatti, non si tratta a suo avviso semplicemente di un’aspettativa fallita, ma del piacere e della felicità provocati dall’irrompere dell’assurdo in un’aspettativa d’intellezione.

Per Macedonio “la comicità realista, o di fatti accaduti, e il motto di spirito verbale, o concettuale, hanno in comune solo un elemento, sebbene essenziale: il riferimento edonistico. Entrambi si incentrano sul piacere, non solo dello spettatore o del lettore, ma anche della vittima della comicità reale. Si assomigliano, inoltre, per il fatto di modellarsi, entrambi, come assurdi” (ibidem; cfr. RI, p. 56).

La differenza tra questi due tipi di assurdità potrebbe invece essere riassunta come segue: la comicità reale consiste in un assurdo materiale, che non comporta un “impossibile assoluto”. Nella comicità basata sui gesti o sui movimenti — come nel caso del pagliaccio che prima mostri grandi prodezze di agilità e potere muscolare e poi, per salire su un tavolo, vi si arrampichi a stento e con fatica — non si esibisce un impossibile. Al contrario, nel motto di spirito verbale o concettuale la coscienza è indotta a credere nell’assurdo e “la connotazione edonistica spirituale si fonda sulla possibilità di intravedere una omni-possibilità intellettiva, che ha una risonanza liberatoria” (HU, p. 305).

Dunque, se le teorie sulla comicità hanno studiato la natura di questo piacere e la sua opposizione ad altri sentimenti, a Macedonio sembra però che non sia stata percepita da nessuno “una verità che, se vi fossero assiomi significativi, dovremmo definire assiomatica: un’emozione piacevole, come è quella della comicità, non può che derivare dall’allusione a un atto, una facoltà o un avvenimento gradevoli o che conducono alla gradevolezza” (ivi, p. 306).

Riassumendo, la comicità per Macedonio dev’essere:

1) emozionante, 2) piacevole, 3) inaspettata, 4) nata dalla percezione immediata di un qualsiasi atto d’indole edonistica che, sebbene interamente egoistico, non sia dannoso, e si basi su uno sbaglio scaturito da un’eccessiva prudenza o da un’illusione impossibile; oppure, dal credere momentaneamente nell’assurdo (ivi, pp. 307-308). In ogni caso, le tematiche e gli atteggiamenti mentali che le sono connessi devono essere piacevoli. Dagli episodi di mera comicità egli distingue però l’umorismo, o “Belarte dell’illogica”, che è resa possibile solo dal motto di spirito concettuale, e cioè da una battuta che induca a credere per un istante nell’assurdo (cfr. ibidem).

Questa sua ulteriore distinzione va a integrare la sua teoria estetica, o della “Belarte”. Macedonio è infatti convinto che si possano creare solo “due momenti veramente artistici nella psiche del lettore: il momento del nulla intellettuale attraverso l’umoristica concettuale, meglio chiamata illogica dell’arte, e il momento del nulla nell’essere coscienziale, usando i personaggi (della ”novelistica“) per l’unico uso artistico a cui dovrebbero sempre essere destinati: non per indurre a credere in un carattere, un fatto, ma per far sì che il lettore, per un istante, possa credersi egli stesso personaggio, estirpato dalla vita (ivi, p. 260) L’allusione alla felicità e la risonanza liberatoria dell’assurdo sono gli effetti dell’umoristica concettuale, la capacità di indurre il lettore a credersi personaggio è invece un requisito della narrativa (”novelistica“), che in questo modo può a sua volta riuscire a disancorare l’io dal reale che ne sostiene l’illusione. Entrambi gli effetti producono un tipo particolare di piacere: quello che può scaturire soltanto da un’infrazione del principio di causalità e del ”principium individuationis“, fonte sotterranea di ogni spinoziana ”tristizia".

In tutto ciò che è capace di eccitare un vivace scoppio di riso, deve esserci, secondo Kant, “qualcosa di assurdo (in cui per conseguenza l’intelletto per se stesso non può trovare alcun piacere). Il riso è un’affezione, che deriva da un’aspettazione tesa, la quale d’un tratto si risolve in nulla. Proprio questa risoluzione, che certo non ha niente di rallegrante per l’intelletto, indirettamente rallegra per un istante con molta vivacità” (CG, p. 194). Pur ritenendo insufficiente la spiegazione di Kant, Macedonio rimarcherà a sua volta l’importanza della riduzione all’assurdo e al nulla in tutta la sua teoria dell’umorismo. Ma l’improvvisa risoluzione di un’attesa in nulla costituisce per lui solo l’esito di un gioco linguistico e concettuale ancora insufficiente per definire il comico, come lo è del resto quell’irruzione nella vita cosciente di un elemento meccanico, automatico e rigido di cui parla Bergson. Che quest’elemento sia inoltre riconducibile all’inconscio, o addirittura a desideri rimossi, come Freud sostiene, sembra a Macedonio una soluzione vaga e problematica. Piuttosto, una tale irruzione potrebbe riferirsi all’inconscio inteso come qualcosa di simbolicamente automatico, sede di traiettorie simboliche preordinate che — secondo l’accezione che dell’inconscio freudiano fornisce Lacan, con il quale sono state ravvisate, da Germán García, anche analogie di ordine stilistico (cfr. CI, p. 63 e pp. 65-66) — continuano a fare da sfondo alla nostra vita cosciente e ne costituiscono la struttura immanente. Il soggetto che si scopre meccanico sarebbe in questo senso un mero portatore di catene significanti, di significazioni non sue, ma prese in prestito dall’Altro. In qualche modo, la marionetta che è in noi allude al nostro essere agiti ed eterodiretti e il rivelarci all’improvviso questa sorta di dipendenza può produrre una nuova consapevolezza e un effetto liberatorio, che si manifestano attraverso una reazione ilare.

In questo senso l’umorismo può costituire un modo per liberarsi dell’illusione dell’io, della sua immagine ossessiva (la stessa immagine di cui Buster Keaton cerca reiteratamente di evitare lo sguardo in “Film” di Samuel Beckett), uno dei modi paradossali per procedere a quella liquidazione dell’io per realizzare la quale — come scrive Diego Vecchio — “Macedonio concepisce un autentico programma estetico-metafisico” (EG, p. 75). È infatti all’interno di questo programma generale che operano, sebbene in modi diversi, sia “il motto di spirito” che il “comico”: il primo destrutturando la fede del soggetto nella razionalità e inducendolo a non identificarsi con quella di cui si suppone detentore; il secondo alludendo alla felicità, e quindi ad uno stato d’animo già di per sé “ayoico”, in grado di contribuire alla desoggettivazione del soggetto.

A parziale conferma della tesi di Macedonio sull’umorismo e, in particolare, sulla comicità, si potrebbero qui ricordare i paradossi verbali di Petrolini, o i film dei grandi comici della storia del cinema. Sebbene siano anche personaggi comici, quelli di Petrolini sanno proporre diverse caricature dell’io ed evidenziano la prosopopea che spontaneamente e inavvertitamente lo attraversano, in modo da ridurlo quasi ad un’abitudine o a un vistoso capriccio. In questo senso, sebbene tali caricature facciano anche allusione alla felicità, in primo luogo esse contribuiscono a smascherare la vanagloria irriverente di cui l’io si ammanta (per esempio nel personaggio di “Gastone”), ne rivelano la consistenza illusoria, conseguendo in questo modo effetti analoghi a quelli della “Belarte de la Ilogica”

D’altra parte, per quanto concerne la comicità in senso stretto, nelle opere cinematografiche di Buster Keaton, Charlie Chaplin, Stan Laurel e Oliver Hardy, Totò e Jacques Tati si possono riscontrare una leggerezza e un’ingenuità che alludono costantemente alla felicità come a qualcosa che può rivelarsi imminente, incombente dietro ogni situazione o gesto. In Charlot questa prossimità della felicità è evocata emblematicamente dal fare spallucce e dal far roteare il bastone dopo gli eventi più incresciosi, dal suo saper affrontare, con sorprendente disinvoltura e rapidità, qualsiasi situazione difficile, o da un’improvvisa voglia, subito esaudita, di grattarsi da qualche parte; in Totò dalla faccia tosta e dal cinismo che gli permette di gestire qualsiasi circostanza virtualmente imbarazzante senza turbarsi mai troppo o turbandosi sfacciatamente, in un modo distanziato e dissacrante (potremmo dire: meta-turbandosi); in Stanlio e Onlio da una spensierata distrazione, che in Stanlio arriva talvolta a suggerire l’idea di un perfetto vuoto mentale; mentre la riflessività esitante di Jacques Tati, la sua curiosità distratta e fiduciosa, il trattare quasi le cose e gli eventi come persone, sono a loro volta comiche perché alludono continuamente alla disattenzione dall’io e, quindi, alla felicità.

Persino in Buster Keaton, che apparentemente è il più distante dall’evocare un’idea di felicità, questa è allusa dalla sua propensione ad andare sempre oltre la difficoltà momentanea e dal suo gettare il cuore o la solita imperturbabile espressione oltre l’ostacolo, assecondando con cieca e generosa tenacia la trama contingente e caotica degli avvenimenti.

In tutti questi casi si potrebbe osservare che una qualche difficoltà ritenuta oggettiva, problemi apparentemente seri o situazioni intricate, si risolvono in nulla grazie alla felice disposizione d’animo dei protagonisti della situazione comica. Così, se gli effetti dell’umorismo sono per Macedonio riconducibili a un’esperienza del nulla conseguita mediante un repentino scarto di senso, all’assurdo che sanno far scorgere al lettore o allo spettatore nell’intelaiatura della loro coscienza individuale, nel caso specifico del comico questa improvvisa risoluzione in nulla di un senso atteso allude alla felicità per il piacere liberatorio, riscontrato anche da Freud, che riesce a procurare: in questo caso si tratta però di una liberazione dalla stessa catena causale cui è vincolata la nostra razionalità e dallo stesso “principium individuationis”, da quell’eterno ciclo che consente a ogni senso di rinascere sempre dalle sue ceneri nell’Altro. Senso residuale e tuttavia punto di ancoraggio, per la sua articolazione simbolica, dell’Io al reale, che viene spezzato dal riso procurato da ogni situazione comica.

L’aver rilevato, da parte di Macedonio, questa sorta d’indole un po’“buddista” presente nella comicità, l’inclinazione simpatetica e quasi altruistica che sottintende, rende la sua posizione in merito originale, se non unica, rispetto agli studi precedenti, e forse anche rispetto a quelli successivi alla sua opera; una posizione che è in grado, quanto meno, di gettare una nuova luce critica su altre interpretazioni più famose, come quelle proposte da Bergson e, soprattutto, da Freud.

5. Entropia e felicità

Secondo Rudolf Arnheim, Freud ha voluto dimostrare “che lo sforzo di mantenere la tensione a livello minimo, o di eliminarla interamente, costituisce la tendenza dominante di un’esistenza psicofisica (principio di Nirvana)” (EA, pp. 62-63). In questo senso, gli istinti sarebbero delle “pulsioni dell’organismo vivente a ritornare allo stato inorganico” e per questo la morte, ovvero il massimo stato concepibile di disordine, costituirebbe il vero obiettivo della vita (cfr. EA, p. 63).

Avendo individuato nello sforzo per ridurre la tensione “l’unica tendenza genuinamente primaria dell’organismo”, Freud avrebbe, secondo Arnheim, adottato una concezione metapsicologica che potremmo succintamente definire di tipo “entropico”. Un’analoga impostazione teorica è reperibile anche nell’eudemonologia e nell’umoristica di Macedonio, ma qui una simile prospettiva teorica deve essere interpretata secondo una accezione diversa. Riferendola alle sue tesi sopra esposte ci si accorge infatti che, pur potendosi rivelare pertinente, essa porta a conclusioni non conformi con quelle freudiane: lo scopo dominante in un’esistenza psicofisica non è per Macedonio quello di ridurre il livello della tensione, ma quello di diminuire il livello di dolore e accrescere il piacere e la felicità. Nonostante questa tendenza di base, da un lato, in ambito edonico, piacere e dolore tendono ad equilibrarsi, senza tuttavia annullarsi reciprocamente o confondersi, e dall’altro, in ambito umoristico, mostrano come l’allusione alla felicità che il comico comporta costituisca solo di riflesso e secondariamente anche un modo di ridurre una tensione psichica. Poiché infatti vi sono molti altri modi per ridurre tale tensione che comici non sono, non si può scambiare una tale condizione preliminare — o, se vogliamo, un simile effetto collaterale — come un tratto essenziale della comicità. Piuttosto, in quanto l’umoristica concettuale sa provocare un momento di decentramento del soggetto, essa è anche in grado di predisporlo a cogliere l’omni-possibilità che lo caratterizza, disordinando provvisoriamente il suo cosmo interno e dislocandolo altrove rispetto al suo abituale modo di concepirsi, consentendogli così di riconoscersi in una pluralità di prospettive, tra loro anche contraddittorie.

La teoria eudemonologica di Macedonio sottolinea come gli stati di piacere e di dolore tendano spontaneamente a complicarsi e miscelarsi, a equilibrarsi nell’arco di una vita. In questo senso, può essere considerata una teoria entropica. Ma se la tendenza a una sorta di equilibrio dinamico caratterizza per Macedonio il rapporto tra gioia e dolore all’interno di ogni vita, l’umorismo e l’assurdo concettuale presenti nel comico, l’allusione e l’invito alla felicità che, come abbiamo visto, questo comporta, possono contribuire a disaggregare le pareti dell’Io e a dissolverne la presunta identità, privando emblematicamente il soggetto, almeno per qualche momento, dei confini che lo distinguono dagli altri, e consentendogli così di accedere a un vissuto sospeso, a una sorta di flusso vitale impersonale scandito dalle capriole di un possibilismo paradossale in grado di rallegrare l’esistenza e di conferirle un nuovo slancio ad ogni voluta. In questo modo, l’Io cesserebbe di essere il terreno in cui si commisurano e possono essere “contabilizzati” stati d’animo opposti, e anche il computo dei loro eventuali disavanzi può spostarsi su un piano transindividuale, trattando ogni Io così ridotto le sofferenze e le gioie degli altri come se fossero le proprie.

Con l’esercizio dell’umorismo concettuale si realizzerebbe dunque quella stessa tendenza al disordine e al caos che, analogamente a quanto avviene in ambito edonico, tende a collocare ogni individuo in una posizione equidistante rispetto all’omni-possibilità che lo concerne essenzialmente e che ne fa un essere, ad un tempo, uno e molteplice. Come accade in alcune opere di Pirandello, si potrebbe dire, parafrasando Terenzio, che al soggetto abituato all’esercizio dell’umorismo nulla di umano sia più estraneo, perché il suo Io è in grado di disancorarsi dalla sua presunta identità e di accedere progressivamente all’omni-possibilità che lo caratterizza.

Per questo, se dopo un attento esame della teoria eudemonologica di Macedonio può non risultare perfettamente garantita un’equa distribuzione tra gli stati di felicità e d’infelicità in individui diversi, viceversa, nella dimensione “ayoica” incoraggiata dall’esperienza del comico e dell’umorismo concettuale dolori e piaceri della vita potrebbero invece tendere davvero ad uno stato di massimo equilibrio. Infatti, venendo meno ogni prospettiva incentrata sull’Io, qualsiasi eventuale computo dovrebbe necessariamente trasporsi in una dimensione sovrasoggettiva, nella quale tali stati, pur non confondendosi e pur non perdendo così la loro specifica tonalità emotiva, tenderebbero tuttavia ad intrecciarsi e a distribuirsi nel modo più equilibrato, e quindi meno carico di tensione tra le due opposte condizioni edoniche.

Per accedere a tale dimensione sovrasoggettiva, in grado di rendere — all’interno, per così dire, di ogni Io-non più Io — attuale un eventuale equilibrio edonico, la comicità per un verso, la Belarte per un altro, svolgono un ruolo fondamentale: entrambe contribuiscono infatti a spezzare le linee che ci permettono di considerare tali stati come “nostri”, evitandoci di soffrire implacabilmente le conseguenze del “principium individuationis”.

Esemplificazioni della varietà del nulla, i paradossi macedoniani hanno lo scopo fondamentale di farci per qualche momento dimenticare del principio di causalità, producendo — come rileva in modo pertinente Horacio González — “una conciliazione felice del mondo col suo stato di assurdità” (FC, p. 81). In questo senso, è vero anche quanto fa notare Ana Camblong, quando sostiene che le assurdità macedoniane, le sue “pietre paradossali”, favoriscono l’insorgere di “diversi gradi di entropia che perseguono la caduta nel vuoto mentale, o, che è lo stesso, nel caos” (DP, p. 411). In questo modo, ovvero abdicando momentaneamente alla propria razionalità, ognuno può accedere a quell’omni-possibilità della sua essenza sovraindividuale, dal vago sapore kierkegaardiano, che si manifesta attraverso il debordamento di ogni Io verso altri Io, reali o immaginari. Le implicazioni in questo processo delittuoso di lesa razionalità sono definite dalla Camblong “implacabili, poderose, a volte simpatiche, generose, compromesse con il sorriso e la tenerezza” (ibidem), ma in qualsiasi modo le si voglia considerare mi sembra che la loro analisi costituisca l’esito più prezioso e originale della teoria eudemonologica di Macedonio, giacché l’allusione e l’invito alla felicità contenuti nell’esperienza del comico risultano alla fine come il modo più concreto per incidere, in una maniera comunque per noi propizia, sulla legge del relativismo edonico, nonché sul presunto equilibrio tra gioie e dolori che dovrebbe confermarla nella vita di ognuno.

Sigle bibliografiche

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