Il gergo dell’essere. Il linguaggio heideggeriano secondo Löwith, Calogero, Adorno e Ortega y Gasset

Gli uomini creano opposizioni che non esistono, e le mettono in nuovi termini, fissati in maniera che, mentre il significato dovrebbe governare il termine, il termine in effetti governa il significato (Francesco Bacone, Saggi, cap. III).

1. Introduzione

Nella storia della filosofia capita a volte che pensatori appartenenti a scuole anche molto distanti producano argomentazioni simili sui soggetti più svariati. A questo riguardo, mi pare che le analogie riscontrabili tra le critiche mosse da Löwith, Calogero, Adorno ed Ortega alla filosofia heideggeriana possano indurre qualsiasi lettore di Heidegger a riconsiderare in una luce nuova il rapporto che sussiste tra il suo pensiero ed il suo linguaggio.

Si tratta ovviamente di valutazioni critiche per altri aspetti diverse, ma tutte prendono in esame il problema del «gergo dell’autenticità» (per usare un’espressione di Adorno»), o comunque dello «stile» argomentativo heideggeriano, considerandolo come un elemento fondamentale per comprendere il significato generale di quella filosofia, nonché il grande successo che questa ha riscosso presso i «filosofi di professione» durante questo secolo.

Il riferimento ai filosofi di professione non è casuale, perché nello stesso secolo vi sono stati altri filosofi che, pur dicendo cose simili, non hanno riscosso, almeno in ambito accademico, e al di fuori del loro paese, un equivalente successo; mentre sono stati molto più letti ed apprezzati presso un pubblico non specialistico.

Dobbiamo desumerne che la loro riflessione sia stata nel complesso più superficiale o meno innovativa? Oppure questa differenza può essere imputata anche alla scelta, da parte loro, di un linguaggio «il meno gergale possibile», e pertanto accessibile ad un pubblico più vasto, ma al tempo stesso meno bisognoso di una rielaborazione chiarificatrice?

Poiché Ortega y Gasset appartiene a questa schiera, per la verità non molto nutrita, è nella speranza di poter ottenere una risposta a tale domanda che mi soffermerò sulle sue riserve nei confronti della filosofia heideggeriana solo nell’ultima parte di questa riflessione, iniziando invece con l’esaminare subito, sebbene succintamente, la posizione espressa da Löwith nei suoi Saggi su Heidegger e procedendo poi col prendere in esame le riserve che, dopo la lettura di Cos’è metafisica?, furono avanzate da Guido Calogero in un breve saggio apparso sulla Rivista di filosofia nel 1950.

Ma prima di addentrarmi nella critica del linguaggio heideggeriano intrapresa dai filosofi sopra menzionati credo di dover porre in evidenza un problema preliminare e più generale, che può essere riassunto in domande come le seguenti: è veramente possibile analizzare la gergalità diffusa nell’ambito della filosofia del novecento (come del resto nel costume o nelle mode linguistiche di gruppi socialmente significativi) senza entrare nel merito delle singole dottrine o sistemi teorici? Oppure, in altri termini: è possibile esaminare separatamente stili e contenuti di tali dottrine, trattarli in modo almeno parzialmente indipendente?

A simili domande se ne potrebbero poi aggiungere altre, forse ancor più fondamentali, come le seguenti: in che misura si può tracciare una legittima distinzione tra stile e gergo? Corrisponde forse ciò che Adorno chiama gergo ad un tipo stilistico particolare? Esistono stili filosofici più o meno immuni da accenti o riflessi gergali?

Tali domande non riguardano tanto l’interpretazione che Adorno fornisce della filosofia heideggeriana, perché in questo senso egli non scinde le sue considerazioni sul gergo dell’autenticità da una valutazione complessiva della filosofia che lo adotta. Esse possono tuttavia essere poste — anche tenendo conto di quante correnti del pensiero contemporaneo potrebbero costituire l’oggetto di critiche analoghe a quelle che Adorno muove ad Heidegger e ai suoi seguaci — qualora partiamo dall’ipotesi che le inflessioni gergali non siano strettamente necessarie all’elaborazione di quelle teorie filosofiche che se ne servono come di un «medium» abituale, pur potendo costituire un segnale della dinamica e del percorso che ha permesso ai singoli pensatori di elaborare le proprie dottrine, nonché uno strumento utile, sebbene estremo, per differenziare nella loro genesi tali dottrine da altre apparentemente affini.

Uno stile filosofico che adotti un lessico innovativo e ne sviluppi le relazioni interne in maniera da dar vita ad una sorta di «gergo» costituisce, nella storia della filosofia, senza dubbio un fenomeno frequente. Probabilmente non c’è un filosofo che abbia inciso in maniera rilevante sulla storia del pensiero che non abbia dato vita ad un suo lessico particolare. L’invenzione di una terminologia nuova può rivelarsi la più idonea per la definizione di concetti originali e l’adozione di uno stile filosofico peculiare può risultare indispensabile per la costruzione di una teoria filosofica che si differenzi per qualche aspetto rilevante dalle precedenti. Aristotele, Kant, Hegel o Marx — per citare solo alcuni tra i più importanti — sono stati anche degli inventori di un nuovo lessico filosofico.

Una simile circostanza non esime tuttavia da alcune precisazioni e puntualizzazioni. Innanzi tutto, prima di assecondare l’adozione di un nuovo lessico filosofico, bisognerebbe essersi accertati che quanto si vuole significare con i termini che vengono proposti non possa essere detto altrettanto chiaramente, o più chiaramente, con termini prelevati dalla tradizione filosofica o dal linguaggio comune, naturalmente dopo aver precisato il senso in cui intendiamo servircene. Ma soprattutto, è opportuno appurare se un dato lessico non riesca a mascherare concetti incerti ed ambigui, che alla lunga possono rivelarsi controproducenti per lo sviluppo della riflessione.

In ogni caso, anche quando si voglia procedere all’adozione di un lessico almeno in parte innovativo, questo non dovrebbe recidere i rapporti né con la terminologia tradizionale cui pretende di sostituirsi né con il linguaggio ordinario, ma piuttosto continuare a tessere con essi un dialogo aperto, dato che in questo modo, oltre a conseguire una maggiore chiarezza, si potrebbe sfruttare al meglio la retroazione sullo stesso linguaggio quotidiano del nuovo apparato terminologico per migliorare la circolazione e il confronto delle idee.

D’altra parte, un tale eventuale vantaggio non aiuta a risolvere il problema che ho sollevato in via preliminare: come stabilire la necessità, o almeno l’utilità, d’introdurre una nuova terminologia, e in particolare d’introdurne una che si presenta come irriducibile a tutte quelle che sollecitano con essa un confronto critico? Oppure, in maniera ancora più radicale: come stabilire se al nuovo impianto terminologico corrisponde una teoria filosofica veramente innovativa?

Una prima risposta potrebbe essere la seguente: quando difficilmente si riuscirebbe a dire le stesse cose in maniera più chiara servendosi del linguaggio offerto dalla tradizione o dal linguaggio comune. Ma questo può essere un criterio adeguato? Come si può stabilire — e specialmente in un’epoca post-strutturalista, quando ormai nessun tipo di pensiero è considerato indipendentemente dal suo linguaggio specifico — se il contenuto di una teoria, il tipo di strumentazione concettuale che essa offre per esaminare il proprio campo d’indagine, non venga inavvertitamente modificato, anche in maniera essenziale, rinunciando alla creazione di un suo lessico peculiare?

Per conseguire una tale certezza bisognerebbe innanzi tutto averne un’altra: quella per cui gli stessi «contenuti» intenzionati da una certa riflessione siano esprimibili in maniere diverse, più o meno chiare e comprensibili, anche senza che debbano per questo subire alterazioni essenziali.

Sebbene il pensiero abbia spesso bisogno di appoggiarsi su termini inediti per scandire e marcare differenze che altrimenti potrebbero sfuggire ad un occhio anche attento, si potrebbe ritenere che l’esercizio della sua «traducibilità» nel lessico sia del linguaggio comune che della tradizione filosofica dovrebbe essere riconosciuto come fondamentale al fine di appurare le sua effettive relazioni con l’uno e con l’altra, e quindi la fondatezza ed originalità della teoria che lo adotta.

In effetti, l’elezione di un lessico peculiare e per lo più irriducibile a categorie usuali, o comunque riconducili alla tradizione, pare basarsi sulla convinzione più o meno implicita che i concetti siano veicolati dalle parole al punto da costituire con esse un connubio indissolubile, e che il mutare termine, in questo senso, possa alterare in maniera esiziale il contenuto del pensiero. Una simile convinzione è tanto più sorprendente in un filosofo come Heidegger, perché se è vero che le scienze della natura hanno bisogno di un linguaggio tecnico per poter con esso effettuare nel modo il più rigoroso e veloce i propri calcoli ed ordinare sistematicamente le conoscenze acquisite, non se ne vede la necessità per il pensiero che lui stesso definisce «meditante» (besinnliches), dove i concetti sono di per sé qualcosa di mobile ed ermeneuticamente aperto, soggetti alle interpretazioni di altre prospettive teoriche che possono convivere solo in un ambiente dialogico e prosastico. Al contrario Heidegger, dopo la «svolta», svaluta la prosa per sottolineare l’importanza della poesia: nella poesia intuizione pensata e parola tendono crocianamente a coincidere, la parola rivela e annuncia un pensiero che si dimostra intraducibile senza incorrere in sue menomanti alterazioni e che può trovare in essa la sua modalità ultimativa ed assoluta, tanto che il linguaggio finisce col sembrare l’unico autentico «pastore dell’essere».

Al tempo stesso Heidegger, nonostante le sue riserve nei confronti della conoscenza scientifica, esalta la vocazione filosofica della lingua tedesca e sulla scia di Leibniz evidenzia come il tedesco sia tra tutte le lingue europee quella che meglio di altre lascia trasparire la struttura concettuale sottesa ai propri termini. In questo modo pare sfuggirgli (a differenza di Leibniz) che i vantaggi del tedesco sono riconducibili proprio alla possibilità di usare il linguaggio come un calcolo conoscitivo, di esaltare quindi la funzione «calcolante» e «scientifica» del linguaggio, funzione che avrebbe potuto essere ancor meglio sviluppata mediante il ricorso ad una «lingua artificiale».

Anche alla luce di queste osservazioni, considerando che ogni «gergo» autoreferenziale è destinato ad essere usato in una sorta di calcolo, sarebbe auspicabile che quelle teorie filosofiche che vogliano dotarsi di un impianto lessicale nuovo ed originale coltivino viceversa l’esercizio della loro prosaica «traducibilità» verso altre configurazioni teoriche e lessicali, in quanto proprio il ricorso a locuzioni sempre più sfaccettate e mosse da un desiderio di chiarezza dialogica può consentire loro di non dare vita a dei veri e propri «gerghi».

Il linguaggio tecnico di Aristotele, di Kant, di Hegel o Marx viene continuamente riferito e ritradotto nei termini propri della tradizione a cui questi autori fanno riferimento e il loro linguaggio tecnico non giunge mai ad un funzionamento autoreferenziale, sebbene talvolta, per lunghi tratti, anche loro non sembrino trovare buone ragioni per dischiudere la loro esposizione verso un pubblico virtualmente più eterogeneo. L’esigenza di una maggiore chiarezza viene invece avvertita da quelli che possono essere considerati, almeno per le tematiche che introducono, i precursori della filosofia dell’esistenza, vale a dire Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche e Bergson, i cui lettori erano già estesi oltre i valichi delle accademie. Il loro stile filosofico si sviluppa infatti a partire da un costante confronto con la tradizione da cui prende le mosse e talvolta anche con il linguaggio comune: i singoli termini tecnici che vengono usati non vengono spiegati solo con altri termini dello stesso linguaggio (come accade per esempio anche nel pensiero scientifico), ma poiché devono relazionarsi con prospettive teoriche varie e dislocate in epoche diverse mantengono aperto il dialogo con un linguaggio «medio» — ovvero quello usato nelle comunità culturali di riferimento — senza relegare la propria riflessione nel sistema chiuso di un linguaggio appositamente costruito per conservare ad ogni passaggio il marchio della propria differenza o delle proprie precedenti acquisizioni.

Le cose incominciano a cambiare decisamente con l’impostazione fenomenologica, e un tale cambiamento raggiunge un momento culminante con il pensiero di Heidegger e con la variegata teoria dei suoi esegeti ed imitatori, i quali sono in buona parte, per ragioni epocali, anche post-strutturalisti, o almeno epigoni di De Saussure . Dopo Sein un Zeit e, sebbene più indirettamente, dopo il Corso di linguistica generale, i rapporti tra la filosofia ed il suo linguaggio mutano in maniera radicale e nella seconda metà del ventesimo secolo la riflessione filosofica risulta apparentemente diversificata in tanti idiomi più o meno criptici, che spesso mostrano una certa fatica a interagire tra loro. Il linguaggio in generale appare come un aspetto non scomponibile dal contenuto del pensiero, e con Heidegger si propone addirittura come la voce stessa dell’essere, tanto da indurre qualcuno a ritenere che con la sua opera il problema del linguaggio sia divenuto «l’unico vero problema della filosofia», e ciò non perché meriti di essere perfezionato come strumento, ma perché è «il luogo (Ort) dell’accadere della storia dell’essere» (Lc, 223).

A questa concezione del linguaggio è forse imputabile il fatto che buona parte della filosofia contemporanea, e in special modo proprio quella che ha in Heidegger uno dei suoi punti di riferimento fondamentali, faccia uso di stili ermetici e perentori, di linguaggi che sono da accettare in blocco o in blocco da rifiutare, quasi che la loro condivisione dipendesse da una scelta di tipo estetico prima ancora che teoretico.

L’esigenza di riesaminare il gergo heideggeriano deriva anche da questa considerazione, ma non solo. Infatti, dalle critiche che gli muovono Calogero, Adorno, ed Ortega emergono almeno altri due punti meritevoli d’attenzione: da un lato il sospetto che il linguaggio specifico di cui si dota la filosofia di Heidegger sia volto a mascherare un sostanziale soggettivismo o idealismo di ritorno; e dall’altro che la stessa costruzione di quel linguaggio si basi su concetti che fanno uso, in sede definitoria, di «circoli viziosi», ovvero di definizioni che utilizzano al loro interno il termine stesso che si propongono di definire.

Adorno poi si sofferma sullo stile allusivo e ammicante a recondite profondità del pensiero che non risultano sempre evidenti, ma che vengono da Heidegger per lo più lasciate sospese a mezz’aria quasi a creare suggestioni filosofiche destinate a restare tali per uno sguardo disincantato; e lo stesso Ortega, che pure in più occasioni si dichiara un estimatore di Heidegger, sostiene che l’autore di Sein und Zeit è afflitto da una sorta di «mania di profondità».

Un’altra accusa rivolta da Adorno al gergo heideggeriano è quella — come vedremo — di sostanzializzare l’essere dell’uomo. Tale accusa può destare sorpresa, specie tenendo conto che anche allievi e seguaci di Heidegger dichiarano invece che questi avrebbe trasformato l’essere umano in un verbo, cessando per la prima volta di trattarlo come un sostantivo. Il termine Dasein avrebbe infatti (lo sostiene ad esempio Levinas, ma non è il solo) esattamente questo scopo: proporre ed evidenziare la natura «verbale» dell’uomo, il suo essere nel tempo, la sua fondamentale temporalità. (Le, 67).

Circa i requisiti di chiarezza che ogni linguaggio filosofico dovrebbe avere, ma ancora di più, per quanto riguarda la capacità di ogni linguaggio di mascherare eventuali aporie e di sottrarsi al lavoro critico del pensiero imponendo una sorta di aut-aut tra l’essere accolto nel suo insieme od essere rifiutato in blocco, sarebbe interessante confrontare come alcuni autori esprimano concetti ed idee tra loro anche molto simili in modi diversi, tanto da far pensare, in taluni casi, come in quello di Heidegger, alla nascita di una nuova struttura categoriale, ed in altri, come in quello di Ortega, ad un linguaggio che, pur utilizzando alcuni concetti nuovi ed originali che sviluppano o comunque rielaborano alcune delle tematiche proposte da Heidegger, permane nell’alveo della tradizione e resta aperto al confronto con l’uso comune e ordinario dei termini di cui si serve, risultando di fatto intelligibile ad un pubblico molto più vasto.

Non a caso Ortega considera il requisito della chiarezza come un dovere morale per chiunque si occupi di filosofia, in quanto sa bene come, a parità di contenuto di verità, si possano esprimere concetti e comunicare teorie in maniere tutt’affatto difformi, tali da saper sorprendere gli ascoltatori o i lettori per la loro chiarezza ed efficacia persuasiva quanto capaci di lasciarli attoniti e costernati per il loro alone ostile e profetico.

L’esigenza di verificare in maniera più approfondita possibile la necessità di uno stile filosofico gergale deriva anche da questa condizione di «comunicatore» che, dal tempo del «mito della caverna» platonico, è propria di ogni filosofo che avverta come un proprio bisogno radicale quello di rendere gli altri partecipi delle proprie scoperte. Proprio per valorizzare questa vocazione della filosofia, la parte finale di questo breve saggio si concluderà con un esame della posizione di Ortega, forse quello che, più di altri, attribuiva un’importanza sostanziale a quest’aspetto.

Prima di entrare nel merito del temi in oggetto vorrei però soffermarmi sull’idea heideggeriana di verità, in quanto credo che anche da essa sia derivata l’esigenza di forgiare un gergo peculiare. Quando Heidegger parla di «verità dell’essere», infatti, muta in maniera radicale l’idea stessa di verità rispetto alla sua concezione classica: la verità non è più una disposizione concettuale che ha nella falsità il suo opposto, ma una proprietà di una essenza, per cui, una volta che si ritenga di aver individuato quest’ultima, essa potrà essere considerata incondizionatamente vera. Espressioni come «verità dell’essere», che fanno dell’essere stesso un soggetto e che non avrebbero alcun senso, se non mistificatorio, nell’accezione tradizionale del termine «verità» (forse con la sola eccezione di Parmenide) ne acquisiscono uno inoppugnabile nella dimensione successiva alla «svolta».

Ora, la funzione e l’importanza che il concetto di «essere» ha nella filosofia di Heidegger corrisponde grosso modo a quello che il termine «vita» ha nella filosofia di Ortega, così come l’Esserci heideggeriano corrisponde, per la centralità del suo ruolo, all’unione inestricabile dell’io con la sua «circostanza» nella filosofia orteghiana.

In generale, «l’essere» è anteriore alla vita, giacché, anche se non vi fosse vita, si potrebbe comunque dare «l’essere». Ma proprio per questo «l’essere», il suo pensiero, finisce con l’assomigliare ad una sorta di divinità non antropomorfa e priva di volontà, ad una scaturigine indifferente da cui tutto ha inizio e tuttavia nulla deriva in virtù di una semplice relazione di causa-effetto.

Inoltre, le affermazioni di Ortega intorno alla vita, così come ancora quelle di Husserl, fanno ancora parte di teorie controllabili intersoggettivamente, se non nel senso riduttivo proposto dai neopositivisti, almeno in senso fenomenologico. Se Rudolf Carnap sostiene, proprio a riguardo di Cos’è Metafisica?, che le tesi di Heidegger (come di qualsiasi altro pensatore metafisico) costituiscono una sequenza di errori logici, come ad esempio quello di riferirsi al «nulla» come si trattasse di un’entità positiva (cfr. Sm, 516-519), le analisi fenomenologiche husserliane indicano tuttavia delle entità concettuali che, anche quando non si riferiscono a stati di fatto esperibili sensorialmente, hanno un significato riconoscibile e controllabile da più soggetti nell’ambito della propria presa di coscienza fenomenologica.

Nonostante l’adozione da parte di Heidegger dello stesso metodo fenomenologico husserliano, molte affermazioni che compaiono nelle sue opere si sottraggono spesso ad ogni possibile controllo anche di questo tipo, in quanto da un lato rinviano ad entità che trascendono la stessa coscienza (tra le quali spicca l’Esserci), e dall’altro fanno riferimento ad una nozione di verità radicalmente diversa, che non ha più nella falsità il suo opposto, ma semmai in una sorta di «velo ontico», che scambiando «l’essere dell’essere» con «l’essere degli enti» riproporrebbe incessantemente l’opzione fondamentale della metafisica che egli intende superare.

In particolare, quindi, mentre le analisi fenomenologiche di Husserl e Ortega possono essere comprese da pluralità d’individui che ne riconoscono le sensatezza rispetto al proprio vissuto, dopo la formulazione del concetto di verità come aletheia ogni asserzione può autogiustificarsi come una possibile manifestazione del destino dell’essere, manifestazione che assume talvolta l’aspetto di una rivelazione destinata a pochi eletti.

Le diverse concezioni che caratterizzano la tradizione filosofica possono così essere riassorbite in un’unica dimensione, dove le differenze tra le varie prospettive teoriche retrocedono in secondo piano rispetto al tratto essenziale che le salda insieme e le rende complici, in nome dell’autoaffermazione di una ragione omnivora, dell’oblio dell’essere.

Secondo Jürgen Habermas, per esempio, l’originalità di Heidegger consisterebbe proprio nel collocare il dominio del soggetto «nella prospettiva della storia della metafisica, distruggendo la ragione moderna così a fondo da non distinguere più tra i contenuti universalistici dell’umanesimo, dell’illuminismo e anche del positivismo da un lato, e dall’altro le idee particolaristiche dell’autoaffermazione propria del razzismo e del nazionalismo» (Dm, 137). Sia che le idee moderne si presentino nel nome della ragione o della distruzione della ragione, Heidegger interpreta qualsiasi orientamento come «la pretesa di potere di una soggettività ossessionata dall’autopotenziamento» (Dm, 137-138).

In Heidegger l’impostazione fenomenologica rimane secondo Habermas determinante, ma essa non viene adottata più in una prospettiva gnoseologica, ma utilizzata per fondare una nuova ontologia (Dm, cfr. 142). Con la svolta, poi, il potere del linguaggio che dischiude il mondo viene ipostatizzato: esso non deve più dimostrarsi chiarificando di fatto l’ente nel mondo (Dm, cfr. 157); l’orizzonte della comprensione applicato all’ente precede la questione della verità e non le è invece, come dovrebbe, subordinato. Il dominio metafisico della tecnica può imporsi così attraverso le manifestazioni storico-politiche tra le più diverse, quali fascismo, comunismo, americanismo, quasi che un unico pathos d’autoaffermazione costituisca il tratto fondamentale della soggettività che domina la modernità (Dm, cfr. 163).

Una simile uniformità pare annunciare l’esistenza di una verità unica e ultima, tale cioè da gettare una nuova luce sul passato e sul presente dell’umanità, limitandosi, per quanto concerne il futuro, a vaticinarne uno che sarà comunque altrettanto rivelatorio e inoppugnabile. Poiché questo avrà nel linguaggio il suo profeta, non resta che abbandonare ogni indugio e procedere all’analisi più circostanziata del legame che sussiste tra il pensiero di Heidegger e il suo gergo, o comunque il suo stile filosofico, iniziando proprio con i rilievi critici che gli furono mossi da un allievo prestigioso.

2. Carl Löwith e Martin Heidegger

Nel quarto dei suoi Saggi su Heidegger Karl Löwith osserva che

tra la situazione dell’epoca classica della filosofia tedesca e quella odierna vi è la differenza che, mentre allora ogni pensatore si ricollegava al suo predecessore e instaurava con lui un dialogo di uguali, (né Kant né Hegel sdegnarono del resto di accogliere e di controbattere le obiezioni di figure secondarie del loro tempo), oggi il monologo di Heidegger, personalissimo e che obbedisce solo a leggi proprie, si svolge nel vuoto di un’assenza di discussione, ai cui margini stanno da un lato uditori affascinati, servili imitatori, o una resistenza piena di avversione, e dall’altro coloro che ripropongono i risultati del suo lavoro come oro colante. Heidegger stesso si è chiesto con amarezza (nella prefazione alla terza edizione di Wesen des Grundes) «se coloro che sanno meditare non potessero finalmente rivolgere la loro meditazione anche a questo… punto, che aspetta da vent’anni» (Lo, 126).

Al fine di prevenire obiezioni scontate, Löwith premette che

bisognerebbe essere un pedante per adombrarsi quando un pensatore occasionalmente pone in nuova luce, mediante un’associazione linguistica, il significato rilevato in una parola, anche se il rapporto così stabilito non ha, dal punto di vista della storia della lingua, legittimità alcuna […]. Ma la faccenda è diversa quando un pensatore pretende continuamente e in linea di principio di custodire intatto, nella sua peculiare arte della parola, «il verbo dell’essere», e di presiedere ad esso, dando così voce al «linguaggio della ventura» (Lo, 11).

Le riserve di Löwith sono tuttavia principalmente relative al «secondo Heidegger», quando, «diversamente da Sein und Zeit, egli non concepisce più il linguaggio come articolazione dell’intelligibilità del nostro essere-nel-mondo, ma va oltre, intendendolo soprattutto come «dimora dell’Essere»» (Lo, 10). Dopo la «svolta» infatti il domiciliarsi dell’essere nel linguaggio diviene, «più che in ogni altra filosofia, il criterio di distinzione per riconoscere l’avvicinamento, da lui vagheggiato, alla verità dell’essere e all’essere della verità» (ibidem).

Nella seconda fase della sua produzione filosofica, Heidegger tende infatti secondo Löwith a costruire «i suoi ponti di idee, per ben lunghi tratti, mediante «parole primitive» e radici di parole e loro modificazioni», nutrendo il proprio linguaggio di suggestioni e allusioni semantiche che, oltre a far sorgere il problema della loro accertabilità scientifica, lo hanno condotto verso argomentazioni più suasive che persuasive, argomentazioni che si sono rivelate, nel migliore dei casi, solo verosimili, e grazie alle quali, infine, «nulla risulta chiaro, ma tutto pare significativo» (Lo, 11-12).

Anche per questo, se il linguaggio heideggeriano è potuto sembrare ad alcuni fascinosamente profondo, ad altri ha dato l’impressione «di un mero gioco di parole» pericolosamente capzioso, in grado più di avvincere che di convincere (Lo, 12-13).

Löwith s’interroga quindi sugli elementi che hanno propiziato l’efficacia di Heidegger presso i cultori della filosofia di tutto il mondo. Il suo successo avrebbe infatti superato quello di ogni altro pensatore della sua epoca, come è testimoniato dal fatto che, dette da lui, si accettano di solito affermazioni che non si lascerebbero passare a nessun altro. Sotto questo profilo, il successo di Heidegger ricorda a Löwith quello di Stefan George: in entrambi si può infatti riscontrare l’abbinamento tra «una banalità difficile e una profondità vaticinosa, che rasenta il grottesco. E tuttavia — continua Löwith — non sappiamo lasciarci indietro Heidegger, come non ci si libera facilmente di George; deve dunque essere in loro qualcosa che sfugge al nostro conto. Sarebbe troppo facile dire che è niente: perché è qualcosa che esercita appunto una siffatta influenza. Ma come rispondere a questa domanda?» (Lo, 127-128).

La risposta è da ricercarsi in parte nell’atteggiamento negativo nei confronti della scienza, al quale fa riscontro quello positivo verso la poesia; ma il motivo principale di tale successo è rintracciabile soprattutto nel fondamento sotterraneo di tutta la speculazione heideggeriana, peraltro mai chiaramente enunciato: il motivo religioso che la attraversa, separato dal contesto della fede cristiana. Questo motivo avrebbe infatti esercitato secondo Löwith un indubbio fascino su coloro che, non essendo cristiani credenti, tuttavia avrebbero voluto esserlo. Sebbene non siano molte le frasi nella quali Heidegger evoca il sacro e l’elemento divino, queste sono comunque sufficienti a mostrare una carenza di fondo dell’essere, una sorta di duplice manchevolezza dovuta al fatto che i vecchi dei sono scomparsi, e non ne sono ancora giunti di nuovi. Per questo la riflessione heideggeriana assume tanto spesso l’aspetto dell’interrogazione, la modalità di un «chiedere pensante» o di una «pietà del pensiero»: è in questa sorta di pietà che risiede infatti «probabilmente il motivo di fondo della così ampia eco ed efficacia dell’opera di Heidegger», soprattutto presso coloro che non sono indifferenti alla proclamazione della «morte di Dio», non meditando ancora realmente, dopo la svolta di Nietzsche, in una prospettiva atea.

Nulla caratterizza forse così bene la posizione della domanda di Heidegger — precisa Löwith — quanto la conclusione dello scritto autobiografico Der Feldweg, che resta senza decisione, aperta fra dio, l’anima e il mondo, poiché vi si dice a proposito del «conforto» del sentiero di campo (Feldweg) che indica la via dell’Essere: «È l’anima che parla? O è il mondo? O è dio?». Un pensatore cristiano come Agostino poté dichiarare apertamente e senza esitazione, nei Soliloqui, che non il mondo lo interessava, ma unicamente il rapporto della sua anima con dio. Heidegger, pensatore postcristiano, caratterizza invece l’esistenza umana come ‘essere nel mondo’, e la questione se l’Essere in generale prenda voce, come mondo, per l’Esserci umano, oppure come dio, per l’anima, rimane ambigua e irrisolta (Lo, cfr. 130-131).

In effetti, si potrebbero chiosare le osservazioni di Löwith considerando che se nella speculazione filosofica cristiana Dio è stato anche il nome dell’essere per eccellenza, l’essere pare a volte costituisca per Heidegger una sorta di nome «neutro» di Dio, tanto da poter essere scambiato per un Dio impersonale e privo di volontà, una sorta di Dio de-onticizzato, paragonabile per certi versi al Dio di Cusano, che si contrappone al nulla attraverso la mediazione dell’ente, ma pur sempre il nome di ciò che si rivela e si annuncia innanzi tutto attraverso l’Esserci dell’uomo e la dimensione temporale in cui è gettato, a sua volta presaga del nulla che soltanto è in grado di svelarne l’ultima essenza.

3. Guido Calogero e Martin Heidegger

Pur movendo da considerazioni e perplessità anche simili riguardo all’ambiguità e alla suggestività del linguaggio heideggeriano, Guido Calogero ritiene che il suo esito principale non sia quello di velare una sostanziale vocazione teologica, quanto piuttosto quello di celare un idealismo di fondo.

Questo tipo di critica fu del resto tra le prime ad essere avanzata, e dai più vari orientamenti culturali. A mero titolo di esempio ricorderò qui l’opinione di Mariano Campo, che nel 1939 individuava nella presa di distanza del giovane Heidegger da ogni sorta di psicologismo o trascendentalismo un elemento contraddittorio con gli sviluppi successivi della sua filosofia. Alla prima fase di zelo idealistico-oggettivo e antipsicologistico avrebbe infatti fatto seguito una seconda fase in cui Heidegger ha finito per «psicologizzare, trascendentalizzare e antropologizzare l’ontologia».

Dopo una decina d’anni dalla pubblicazione di Essere e Tempo, la filosofia heideggeriana era quindi già sospettata di una posizione ibrida, quasi che fosse vittima di una vendetta degli eccessi: avendo da principio disprezzato il soggetto, questo aveva finito col divorare l’oggetto fino ad assimilarlo completamente, dato che «un’assoluta separazione può preludere ad una confusione anch’essa assoluta» (cfr. Mc, 491).

Anche Calogero mostra di considerare lo stile heideggeriano e «l’oscurità di molte sue formulazioni» come l’effetto del tentativo di mascherare la sovrapposizione di due prospettive filosofiche tra loro incompatibili: quella idealistica e quella realistica od oggettivistica. Con accenti talvolta sarcastici egli nota infatti, commentando Cos’è Metafisica?, che l’uomo viene considerato per un verso un principio del conoscere, dall’altro un individuo che sta in mezzo alle cose, il suo atto di conoscenza configurandosi quindi «come una «irruzione» di un «Seiende» nel «Seiende», di una realtà nella realtà» (LH, 10). Una tale irruzione fa poi sì che «questa realtà «si apra», «albeggi», «si manifesti» (o come altrimenti si tenti di tradurre l’aufbricht)»; ma nonostante gli effetti mistificatori del linguaggio haideggeriano, i cui giochi verbali sono tanto cari al loro autore quanto fonte di ammirazione per suoi seguaci, oltre che, naturalmente, di disperazione per i traduttori, l’ambiguità di fondo rimane irrisolta (cfr. ibidem).

Questo «aufbrechende Einbruch» — scrive infatti Calogero — «questa «irruzione rivelatrice» è con ciò il conoscere, ontologicamente travestito da accadimento della realtà, e quindi come conflitto tra ente ed ente, come intervento dell’ente parziale in seno all’ente totale». Tuttavia, poiché quest’ultimo non può risolversi soggettivamente nel primo, il suo rivelarsi, il suo diventare conosciuto, può configurarsi esso stesso come «un suo privato evento ontologico, per designare il quale non soccorrono più i consueti termini della gnoseologia, (tutti più o meno richiamanti la riflessione alla serietà del dilemma tra oggettivismo e soggettivismo), e bisogna quindi inventare, dopo il pittoresco «Einbruch», il misterioso «aufbrechen», come apertura di luce e aurora metafisica e insomma come evento conoscitivo in cui l’ente non è conosciuto da nessuno perché partorisce da sé in sé una sua chiarità intelligibile (ma già questo disperatamente ci rimanda ai vecchi ed onesti interrogativi della gnoseologia!)» (LH, 11).

Questo «aufbrechen» del «Seiende», sospeso a mezz’aria tra l’ontologico e lo gnoseologico, da un lato dipenderebbe dall’irruzione del soggetto della conoscenza, dall’uomo scienziato, e dall’altro invece è faccenda del «Seiende» stesso». Si può allora comprendere come Heidegger possa affermare, di quella «irruzione rivelatrice», che essa lo «aiuta». Ma lo aiuta a fare cosa? «Heidegger non può dire, senz’altro, «a diventar conosciuto»: perché questo lo porterebbe ancora una volta sul piano di quella problematica gnoseologica, la quale lo costringerebbe a marciar diritto verso il soggettivismo e ad abbandonare l’anfibia posizione dell’esistenza» (ibidem).

Proprio al fine di permanere in tale ambigua posizione, Heidegger escogiterebbe quindi secondo Calogero espressioni come «verheilt dem Seiendem zu ihm selbst», (ovvero «lo aiuta in vista di lui stesso», o «lo aiuta ad essere lui stesso» (ibidem), riuscendo così a mascherare con il proprio gergo la propria metafisica arcaicizzante. Non solo: «Heidegger disguazza beato in questo verbalismo; e con primitività addirittura eraclitea si estasia di fronte a ricercate coincidenze linguistiche» (LH, 15) costringendo ogni lettore intellettualmente onesto a ricercare il contenuto vitale che riesce ad intravedere nella sua opera oltre la «spessa scorza verbalistica» che la contraddistingue.

In un saggio di due anni precedente, Eredità e sviluppo dell’Idealismo, Calogero aveva del resto già esposto riserve analoghe nei riguardi dell’ambivalenza e del «carattere doppio» in cui venivano a trovarsi la filosofia heideggeriana e quella esistenzialistica più in generale. Quando Heidegger infatti parla «di «Jemeinigkeit», cioè del costante riferimento al «me» di qualsiasi esperienza, e nello stesso tempo dice dell’esistenza, cioè della vita consapevole, che essa è «gettata nel mondo» (la «deiezione»), in quel dato luogo dello spazio e del tempo, coinvolta in una realtà che la soverchia di gran lunga», secondo Calogero egli non tiene conto di una differenza fondamentale (che non collima con la «differenza ontologica»): e cioè del fatto che «altro è l’io che è contenente del mondo, altro è quello che ne è contenuto. Altra è quell’egoità di cui dico che è l’inevitabile ambiente trascendentale in cui ogni realtà — anche la nebulosa di Andromeda, anche ciò che penso al di là dell’universo finora esperito — deve essere inclusa proprio per venire riconosciuta e asserita come realtà, altra è la mia persona in quanto io stesso posso considerarla come realtà tra altre realtà, in un mondo infinitamente più vasto di essa» (Fc, 254-255).

Non tenendo conto di una simile differenza, e anzi celandola tra le pieghe del suo gergo, Heidegger può così dare l’impressione di aver costruito una nuova struttura categoriale, da tutti facilmente riconoscibile proprio grazie alla peculiarità del suo lessico e del suo stile.

Ma qual è, per così dire, «la differenza tra le due differenze», quella evidenziata da Calogero e l’altra, «quella differenza ontologica» che occupa una posizione tanto rilevante nella riflessione heideggeriana? Mentre quest’ultima viene trasformata nel requisito essenziale di un nuovo tipo di sostrato, un nuovo fondamento per l’Essere nella sua interezza, sottraendosi pertanto all’alternativa classica tra l’appartenere all’ambito del soggetto piuttosto che a quello oggettivo, la differenza di cui parla Calogero, che ha origini assai più antiche, ripropone l’alternativa gnoseologica tra i due ambiti senza pretendere di poter annullare la loro dualità in un nuovo fondamento ontologico-esistenziale.

Tuttavia, malgrado le critiche su aspetti certamente non marginali mosse da Calogero alla filosofia heideggeriana e sebbene il linguaggio di questa costituisca a suo parere la spia di un’impostazione filosofica ambigua ed evasiva, la maschera di medusa di un sostanziale soggettivismo, egli non pare considerarlo come un aspetto tanto essenziale da invalidare completamente il contenuto di quella filosofia, ritenendola invece non priva di un «certo contenuto vitale», che però sarebbe potuto meglio affiorare rinunciando a un simile verbalismo (LH, cfr. 15-16).

4. La critica di Adorno

Un legame ancor più essenziale tra il «gergo» e l’ideologia sottesa alla riflessione di Heidegger viene invece individuato da Adorno, secondo il quale il lessico filosofico heideggeriano è ricco di sostantificazioni destinate a trasfigurarsi nella vocazione poetica di un presunto linguaggio dello stesso essere, a sua volta sostantificazione del nulla, l’unica non ulteriormente riducibile. Anche per questo, Adorno giunge a considerare il singolare «gergo» heideggeriano come il frutto di un gusto barbarico, volto all’elezione di un sapere iniziatico e settario.

Il sospetto che un simile linguaggio possa essere stato adottato proprio nel tentativo di consentire una rilettura dell’esistenza umana partendo da una differenza ontologica radicale e che questa debba essere registrata già all’interno di ogni scansione concettuale non sembra sfiorare Adorno, il quale si sofferma invece sugli «snodi» di quel gergo, sul reticolato concettuale cui danno forma, giungendo anche lui, come Calogero, alla conclusione che esso ha la funzione di mascherare un sostanziale soggettivismo.

Adorno tuttavia non considera affatto Heidegger oscuro o incomprensibile: «Heidegger non è per nulla «incomprensibile», come scrivono in rosso i positivisti nelle loro note a margine; ma egli si circonda del tabù secondo cui una qualunque comprensione lo falsificherebbe subito» (Ga, 66). Con questa precisazione, d’altra parte, piuttosto che attenuare le sue riserve sul gergo heideggeriano, Adorno pare invece coinvolgere in esse la globalità della sua filosofia, ponendo in primo piano il suo carattere autoreferenziale e impermeabile ad ogni tipo di confronto dialogico.

A differenza di Löwith e Calogero, Adorno riferisce le sue critiche al complesso dell’opera heideggeriana, partendo proprio da Essere e Tempo, trovando che già in quest’opera vengono gettate le basi sia del «gergo» heideggeriano che delle principali difficoltà ed aporie della sua filosofia.

Secondo Adorno, in Heidegger «le parole entrano a far parte del gergo solo attraverso la costellazione che esse negano, tramite il gesto della loro unicità. Ciò che la singola parola perde in magia le viene procurato, come per decreto, dall’alto» (Ga, 9), in modo che gli elementi del linguaggio empirico possano essere manipolati come se fossero quelli di un linguaggio vero e rivelato. Chi sa parlare in gergo infatti non ha bisogno di pensare ed esprimersi in maniera determinata, in quanto il gergo pensa per lui, e lo fa tanto bene da rendere superfluo lo stesso pensare.

Di norma, il linguaggio filosofico «trascende ciò che dice tramite ciò che dice nel corso del pensiero. Esso trascende in forma dialettica, quando al suo interno la contraddizione di verità e pensiero diventa cosciente di sé e dunque padrona di sé». Viceversa, Adorno crede che il gergo heideggeriano si appropri di questa trascendenza per distruggerla. Procurando alle parole significati ultimi ed immutabili, la normale dialettica che intercorre normalmente tra le stesse parole e i loro significati viene interrotta: «sia quella tra il contenuto e la parola, sia quella, interna al linguaggio, tra le singole parole e la loro relazione. Si vuole che la parola lasci intatto il suo significato sotto di sé, senza giudicarlo o pensarlo, ma in questo modo «la trascendenza della verità rispetto al significato delle singole parole e dei giudizi viene aggiunta alle parole stesse come loro proprietà immutabile» (Ga, 13).

In base a queste considerazioni, l’effetto più rilevante che deriva dall’impiego di un gergo filosofico pare costituito dalla sua impermeabilità sia rispetto al pensiero che voglia svilupparsi in maniera dialettica che rispetto al linguaggio quotidiano, impermeabilità che finisce col chiudere il pensiero su sé stesso, recidendo alla radice anche la dialettica che invece dovrebbe caratterizzare il rapporto tra pensiero e linguaggio in ogni riflessione filosofica cogente e rendendo lo stesso linguaggio involuto e persino implicitamente violento.

Atteggiandosi «come se fosse la persona intera a parlare e non il pensiero», chi blatera in gergo dà secondo Adorno l’illusione di essere immune dalla spersonalizzata comunicazione di massa: il suo tono gronda di positività e sfugge così al sospetto di poter fare ideologia, sottraendosi al bipolarismo tra pensiero costruttivo e distruttivo in un modo analogo a quello con cui il fascismo liquidò il pensiero critico (cfr. Ga, 14 e 19).

L’essere di poche parole o il non parlare del tutto sono, sotto questo profilo, il miglior contrappunto della chiacchiera esistenziale ed esistentiva. In felice accordo con i suoi consumatori, il gergo riempie infatti i vuoti creati dalla decomposizione socialmente necessaria del linguaggio. Come le persone socialmente modeste, che hanno pochi conoscenti in quanto si sentono a disagio ogni volta che si trovano insieme a persone che non conoscono già, così il gergo dell’autenticità, trasformando questo disagio in una virtù, pare infastidirsi quando deve entrare in contatto con altre prospettive teoriche, e riesce paradossalmente a conquistare la fiducia dei suoi interlocutori con i suoi modi bruschi, trattandoli come intrusi. (cfr. Ga, 36-37).

Ma Adorno non si limita ad analizzare sotto il profilo sociologico gli effetti a suo avviso deteriori del gergo, ma salda l’esame di tali aspetti alla propria valutazione critica del pensiero di Heidegger ricorrendo spesso a commenti ironici e circostanziati dei passi che cita per intero. È quanto accade allorché riporta un brano tratto dalla Lettera sull’umanesimo che recita come segue:

L’uomo non è il signore dell’essere. L’uomo è il pastore dell’essere. In questo meno l’uomo non ci rimette niente, ma vi guadagna qualcosa, in quanto perviene nella verità dell’essere. Guadagna l’essenziale povertà del pastore, la cui dignità consiste nell’essere chiamato dall’essere stesso a guardia della sua verità. Questa chiamata viene come il gettare da cui si origina l’essere gettato dell’Esserci. L’uomo nella sua essenza storico-ontologica è quell’essente il cui essere, in quanto ex-sistenza, consiste nell’abitare nella vicinanza dell’Essere. L’uomo è il vicino dell’Essere (Lu, 73-74; Ga, 39).

Ed ecco il commento di Adorno: «quando al concetto generale si attribuisce quella partecipazione magica all’assoluto che è smentita dalla sua propria concettualità, ne deriva una banalità filosofica» (Ga, ibidem).

Il concetto stesso di «Esserci» si propagherebbe secondo Adorno per via meramente tautologica, parafrasando e ripassando più volte in rassegna le sue determinazioni, perché «ciò che sta a cuore al gergo, a cui deve sempre stare a cuore qualcosa, è identificare l’essenza — «l’autenticità» — con il fatto più brutale. La coazione a ripetere è tuttavia indice di un fallimento: dell’incapacità del pensiero di penetrare ciò che dovrebbe pensare, se si vuole che resti spirito» (Ga, 93).

La violenza sarebbe dunque insita «tanto nella forma linguistica quanto nel nucleo della filosofia di Heidegger: nella costellazione in cui essa pone autoconservazione e morte». In tale identità, veicolata dal suo gergo peculiare e vincolata ad esso, si realizzebbe infatti una sorta di teodicea della morte (cfr. ibidem).

Del resto, Adorno ritiene che il pensiero dell’identità sia stato sempre, nel corso della storia «un portatore di morte, ciò che soffocava tutto», e ciò perché «virtualmente l’identità cerca sempre solo la totalità; l’Uno come punto privo di determinazione e l’Uno-tutto — altrettanto indeterminato giacché non ha alcuna determinazione fuori di sé, è concepito in Heidegger, e da sempre nell’idealismo, come totalità» (Ga, 97).

Con l’introduzione del concetto di «Esserci» — espressione gergale per eccellenza — Heidegger cercherebbe quindi di evitare l’assimilazione della propria filosofia alla posizione idealista, cui potrebbe altrimenti essere facilmente ricondotta.

L’essenza dell’Esserci, e quindi più che la sua mera esistenza, secondo Adorno non sarebbe che la sua ipseità, e l’obiezione che si può muovere contro il linguaggio di Heidegger non è che esso, come ogni linguaggio filosofico, «sia permeato di figure tratte da un’empiria al di sopra della quale desidera elevarsi, ma piuttosto che esso faccia della cattiva empiria una trascendenza» (Ga, 81). È per questo che Heidegger cercherebbe poi un alibi contro l’accusa di soggettivismo gnoseologico, la stessa accusa che anche Calogero gli rivolge. L’ipseità del Sé che esiste autenticamente non dovrebbe, secondo Adorno, essere confusa con l’identità del soggetto, altrimenti l’idealismo del pensiero che pretende di essere «iniziale» viene fuori chiaramente. Non a caso l’essere heideggeriano resta in fin dei conti «un soggetto privato della sua soggettività, quell’Io assoluto fichtiano per così dire senza testa che la tradizione filosofica contrappone a quello meramente empirico» (ibidem).

Una simile impostazione idealista è costruita progressivamente fin dai primi passi di Essere e tempo. In uno di questi Heidegger tratta del primato dell’Esserci interpretando la soggettività — scrive Adorno -

come quel concetto in cui si perde la differenza degli opposti (Indifferenzbegriff): l’unità di essenza e fatto. L’esserci avrebbe due primati. Da un lato sarebbe ontico, vale a dire determinato dalla sua esistenza concreta. «Esserci» in altre parole denoterebbe il fattuale, l’esistente. D’altro lato, tuttavia, «l’Esserci» sarebbe «in sé ontologico per la sua costituzione esistenziale». In questo modo alla soggettività viene attribuita immediatamente una determinazione contraddittoria: da un lato l’essere fattuale, effettivo, dall’altro, come richiesto dalla filosofia tradizionale, l’essere, in quanto coscienza, condizione a priori della possibilità della fatticità, nei cui confronti la soggettività sarebbe concetto puro, essenza e infine l’husserliano «eidos ego». In opposizione alla teoria tradizionale del soggetto, questo carattere ambivalente (Doppellcharakter), che sarebbe al tempo stesso quello di un’assoluta unità in sé anteriore alla caduta nella scissione, avrebbe l’importanza di quel ritrovamento che funge da chiave di interpretazione. In funzione di questo carattere Heidegger si serve del metodo arcaizzante, cioè scolastico. Egli attribuisce all’Esserci, come sue qualità, non solo quei due caratteri, ma anche la loro unità, senza curarsi del fatto che essi, fissati come tali, entrano in conflitto con il principio di non contraddizione. L’Esserci «è», secondo Heidegger, non soltanto ontico — se si pensa infatti a ciò che è sussunto sotto il concetto di Esserci, questa non sarebbe altro che una tautologia — ma anche ontologico. Predicando contemporaneamente dell’Esserci sia l’ontico che l’ontologico, ciò che in questa predicazione è regressivo lo si può cogliere nel suo aspetto di falsità. Un concetto ontologico non può essere attaccato a un sostrato come se fosse il suo predicato. Né l’esser fattuale è un predicato di un concetto — dopo la critica kantiana della prova ontologica di Dio, nessuna filosofia dovrebbe sentirsi ancora in grado di asserire una cosa del genere — né lo è il suo non essere fattuale, la sua essenzialità. Questa è piuttosto il carattere della relazione del concetto con la fatticità sintetizzata in esso; ma in nessun caso si addice, come suggerito da Heidegger, quale qualità «in sé». Che l’Esserci sia ontico oppure ontologico in senso stretto non può essere oggetto di giudizio alcuno; infatti ciò che s’intende con la parola «Esserci» è un sostrato e quindi il senso del concetto di Esserci è qualcosa che non è concetto. Piuttosto «ontico» e «ontologico» esprimono solo forme di riflessione di tipo diverso, applicabili soltanto a determinazioni dell’Esserci oppure alla posizione di esse nella teoria, ma non immediatamente al sostrato inteso (Ga, 81-83; cfr Et, 30).

In realtà, il loro luogo dovrebbe essere secondo Adorno quello della reciproca mediazione concettuale, ma Heidegger la considera come un’immediatezza sui generis e così, di colpo, l’Esserci viene trasformato in un terzo momento ricavato dalla sovrapposizione ambivalente dei primi due. Tali momenti, che dovrebbero rimanere distinti, vengono invece sintetizzati nella stessa identità categoriale, che alla fine li fa apparire come derivati. In questo modo Heidegger può giustificare in maniera all’apparenza fondata la differenza ontologica su cui s’impernia la propria impostazione filosofica, mentre secondo Adorno — le cui riserve rivelano delle evidenti quanto sorprendenti analogie con quelle avanzate da Calogero — «niente tra cielo e terra è in sé «ontico» oppure «ontologico», ma lo diviene solo grazie alle costellazioni nelle quali la filosofia lo pone» (Ga, ibidem).

L’argomentazione di Adorno non avanza riserve sul fatto che si possa distinguere un tipo di riflessione, considerandola essenziale rispetto ad altre, per reinterpretare in una nuova prospettiva il materiale dell’esperienza vissuta e la stessa particolare dimensione in cui si trova l’essere umano. Egli sembra piuttosto imputare ad Hedegger una sorta di salto ontologico mascherato grazie all’adozione di un apposito gergo. Secondo la terminologia corrente, infatti, è evidente che “si debba definire ontologico quel concetto di un ente che ne determina gli attributi essenziali; se però se ne fa di nascosto l’essenza ontologica dell’ente in sé, risulta allora proprio quel concetto di Essere che è prioritario rispetto ai concetti di riflessione; anzitutto risulta, in ‘Essere e tempo’, l’ipostasi della sfera ontologica, della quale si nutre tutta la filosofia heideggeriana. L’anfibolia può basarsi sul fatto che effettivamente nel concetto di soggetto passano l’uno nell’altro due determinazioni: quella sua propria come soggetto esistente, quale essa permane ancora indelebilmente nella congiunzione kantiana del soggetto trascendentale con l’unità della coscienza personale, e quella del soggetto come coscienza in generale, come costituente di ogni cosa esistente. Se però è vero che questo passare è inevitabile per il concetto di soggetto, in quanto espressione della dialettica del soggetto e dell’oggetto all’interno del soggetto e in quanto prova della concettualità sua propria; se è vero pure che la soggettività non è riconducibile immediatamente a nessuno dei sui poli, che appartengono a «gene» differenti, non per questo si può trasformare questa inevitabilità da carenza concettuale in una immaginaria cosa stessa: non si può trasformare la mediazione nell’identità non mediata del mediante col mediato. Certo, l’uno non è senza l’altro; tuttavia entrambi non costituiscono affatto un’unità, come invece suggerisce la tesi di fondo di Heidegger. La loro identificazione significherebbe infatti che il pensiero identificante avrebbe fagocitato il momento non identico, l’esistente, a cui allude la parola Esserci, e avrebbe così riprodotto in segreto proprio quel soggetto assoluto capace di creare, dal quale crede di essersi sottratta la partenza del sedicente esser-sempre-mio. Il principio secondo il quale l’Esserci ha un carattere ambivalente, ontico e ontologico, spodesta il senso stesso dell’Esserci. Questo è l’idealismo nascosto di Heidegger. Per lui la dialettica tra l’ente e il concetto nel soggetto diviene la realtà superiore dell’Essere e così la dialettica viene sospesa. Ciò che si vanta di afferrare una realtà sostanziale andando alle spalle dei concetti di riflessione, oggetto e soggetto, in realtà reifica la loro insolubilità, l’irriducibilità di uno all’altro, trasformandola in un essere in sé. Nella filosofia è questa la forma normale di quel raggiro che poi il gergo commette ripetutamente. In forma non dichiarata e senza ricorrere alla teologia, il gergo rivendica con un colpo solo che l’essenziale è reale e, viceversa, che l’ente è essenziale, pieno di senso, giustificato” (Ga, 83-84).

Bisogna però almeno ricordare, a parziale integrazione del commento di Adorno, che Heidegger perviene ad una simile concezione della ‘non separatezza’ tra l’esperienza onticamente intesa e l’esperienza umana riletta alla luce della differenza ontologica fondamentale che caratterizza l’Esserci dopo aver riproposto — in vari punti di ‘Essere e tempo’- il loro rapporto come quello che può sussistere tra due momenti che, pur essendo virtualmente riassorbibili uno nell’altro, permangono tuttavia distinti. La dialettica di cui parla Adorno, pertanto, più che venire sospesa o annullata, sembra scomposta e stratificata.

In ogni caso, sebbene non sia legittimo, come Kant ha insegnato, trasformare un’essenza in un sostrato, sostanzializzare l’essenza, ciò non toglie che un modo d’essere possa essere giudicato essenziale rispetto ad altri e predicato come tale di un qualsiasi sostrato. Sebbene infatti l’essenza (usiamo il termine nell’accezione di Adorno, dato che Heidegger la riterrebbe comunque fuori luogo) non possa essere fatta coincidere con la fattualità, essa può risultare inerente ad un quid di fattuale, come l’esistenza di ciascun essere umano. La vera questione allora potrebbe essere quella di stabilire in che modo essa può predicarsi come tale di un sostrato senza ridurre quest’ultimo a quella quidditas a cui Heidegger nega possa essere ricondotto (Et, 28).

L’Esserci detiene innanzi tutto un primato ontico, e solo successivamente un primato ontologico, e queste sono per Heidegger due modalità interpretative almeno provvisoriamente parallele e sovrapponibili. In questo senso la dialettica di cui parla Adorno viene realmente sospesa, perché il piano ontico e quello ontologico procedono per un lungo tratto di “Essere e tempo” come due modelli interpretativi che sono in grado di comunicare l’uno rispetto all’altro soltanto, rispettivamente, “predelineando” o “retroagendo”, ma non perché venga a cessare un loro dualismo di fondo o si ometta di confrontarli.

Si potrebbero a questo proposito citare i passi in cui Heidegger parla del rapporto che sussiste tra l’interpretazione ordinaria della coscienza e quella ontologica per rendersi conto di come egli non tenda a svalutare pregiudizialmente la prima rispetto alla seconda, ma come invece tenda a motivare il privilegio accordato a quest’ultima con un’argomentazione almeno in apparenza puntuale e articolata.

Piuttosto, a mio parere, ciò che dovrebbe essere chiarito preliminarmente è in che misura la problematica ontologica introdotta da Heidegger possa essere qualitativamente ed essenzialmente distinta dal suo profilarsi già su un piano ontico-esistentivo, e non costituisca invece solo uno sviluppo depsicologizzato dei suoi lineamenti primari. Se così fosse, infatti, non solo verrebbe meno la necessità di tutta “l’analitica esistenziale”, ma anche del peculiare linguaggio che la supporta, e che probabilmente costituisce l’unica autentica giustificazione teoretica delle scelte lessicali e stilistiche heideggeriane.

Per cercare di far luce su questo punto mi soffermerò su un passo di Essere e Tempo che ritengo cruciale, e precisamente là dove, nel paragrafo quarto, Heidegger introduce la differenza tra la dimensione ontico-esistentiva e quella ontologico-esistenziale. Dopo aver detto che la costituzione d’essere dell’Esserci implica «che l’Esserci, nel suo essere, abbia una relazione d’essere col proprio essere», ovvero che L’Esserci, in qualche modo, «si comprende nel suo essere», Heidegger precisa, poche righe dopo, che «la determinazione dell’essenza di questo ente non può aver luogo mediante l’indicazione della quiddità di un contenuto reale». Proprio per questo motivo, cioè «in quanto la sua essenza consiste piuttosto nell’aver sempre da essere il suo essere in quanto suo, è stato scelto il termine Esserci, quale pura espressione d’essere, per designare questo ente» (Et, 28-29). Subito dopo, tuttavia, Heidegger afferma che «l’Esserci comprende sempre sé stesso in base alla sua esistenza, cioè alla possibilità che gli è propria di essere o non essere sé stesso. Queste possibilità l’Esserci o le ha scelte esso stesso o è incappato in esse o è cresciuto già sempre in esse». Così dicendo, Heidegger sembra fornire un’ulteriore giustificazione dell’abbinamento del «ci» al verbo essere (del «Da» al «Sein») nel termine prescelto, in quanto l’Esserci si troverebbe necessariamente a partire da una posizione determinata in un contesto di possibilità virtualmente illimitate, ma temporalmente limitate. La comprensione che avrebbe di sé stesso a partire da questa posizione determinata — e l’esistenza può decidersi nel senso del possesso o dello smarrimento solo a partire da questa determinatezza originaria — è quella che Heidegger definisce esistentiva, precisando poi che «il problema dell’esistenza è un «affare ontico» dell’Esserci», «affare ontico» per la cui impostazione e chiarificazione «non si richiede la trasparenza teoretica della struttura ontologica dell’esistenza» (Et, 29). Il problema intorno a questa, cioè alla struttura ontologica dell’esistenza, «mira invece alla discussione di ciò che costituisce l’esistenza», e «all’insieme di queste strutture» (riteniamo quelle dell’esistenza), da «il nome di esistenzialità». L’analitica di tale esistenzialità non ha tuttavia per Heidegger il carattere di una comprensione esistentiva, ma quello di una «comprensione esistenziale», e ciò sebbene il suo compito sia predelineato, «quanto alla sua possibilità e necessità, nella costituzione ontica dell’Esserci» (Et, ibidem). L’adozione del termine «Dasein» scaturirebbe quindi dall’esigenza di compiere una sintesi tra due momenti diversi, quello ontico-esistentivo e quello esistenziale, sintesi che può essere compiuta solo riassorbendo il primo momento nel secondo.

Il problema dell’esistenza sarebbe quindi per Heidegger un affare ontico-esistentivo; mentre la discussione intorno ad esso e alle strutture dell’esistenza sarebbe, una volta chiarita la differenza ontologica fondamentale che caratterizza l’Esserci, un problema ontologico-esistenziale. L’aggiungere poi che il secondo problema è predelineato nel primo equivarrebbe a sostenere che la discussione analitica del problema dell’esistenza sarebbe predelineata nel problema dell’esistenza.

A questo punto cosa dovrebbe impedirci di riscontrare in queste fondamentali distinzioni di Heidegger quelle che Adorno considera delle «banalità filosofiche», o che Löwith chiama «banalità difficili», idonee tutt’al più a preludere ad un successivo colpo di scena, ovvero quello della riunificazione nell’Esserci della dimensione ontica con quella ontologica, e pertanto con quella che Adorno interpreta come la sua trasformazione in un sostrato capace di assimilare compiutamente in sé la prospettiva ontologica-esistenziale?

L’unica interpretazione dei passi sopra menzionati che potrebbe a mio avviso evitarci di giungere a tale conclusione è che la differenza tra il piano ontico-esistentivo e quello ontologico-esistenziale debba essere ricondotta a quelle «possibilità dell’Esserci» rispetto alle quali egli si trova già preorientato, in quanto potrebbe esservi semplicemente «incappato» o «cresciuto», ovvero a quell’orizzonte spazialmente e culturalmente limitato (non ancora «temporalmente», che questa sarà una «conquista» della successiva analitica esistenziale), in cui l’Esserci si muove sin dal suo atto di nascita. Ma se è così, allora la discussione sul problema dell’esistenza che compete all’analitica esistenziale verrebbe fondata proprio sul venir meno di questa caratteristica, ovvero tale discussione dovrebbe essere condotta da una posizione che prescinderebbe da quell’orizzonte limitato e da quella posizione iniziale che caratterizzano l’approccio ontico-esistentivo. Ci troveremmo pertanto di fronte all’eventualità di una presa di coscienza neutra, o pura, di stampo essenzialmente fenomenologico, e condotta tuttavia dallo stesso Esserci per il quale, rispetto al problema dell’esistenza, continuerebbe a sussistere parallelamente anche un approccio ontico-esistentivo. Rispetto allo stesso problema, dunque, l’Esserci dovrebbe consistere di due atteggiamenti nettamenti distinti (il Doppelcharakter di cui parlano sia Adorno che Calogero), uno ontico e l’altro ontologico, mentre solo il secondo può essere in grado di condurlo verso quell’esistenza autentica capace d’inverare la sua relazione d’essere col proprio essere, e solo il secondo viene sviluppato, di fatto in maniera autonoma, nell’analitica esistenziale, salvo poi considerare la retroazione di tale analitica sul piano ontico-esistensivo.

Ma come può l’Esserci, se è vero che parte da una posizione comunque determinata — o come direbbe Ortega da una certa «prospettiva», dalla relazione con la sua «circostanza» — abbandonarla per accedere a una «coscienza» neutra d’elezione fenomenologica senza che quest’ultima sia continuamente e dialetticamente rimessa in discussione dalla prima?

In questo caso, infatti, essa non si limiterebbe, come nella fenomenologia husserliana, ad un’analisi dell’esperienza vissuta in grado d’individuare scansioni e differenze fondamentali dell’ esperienza del soggetto, ma a una ricostituzione del soggetto stesso su nuove basi, sul fondamento di un’esperienza rivissuta interamente alla luce della differenza ontologica fondamentale. Ma come potrebbe questa dimensione ontologico-esistenziale differenziarsi realmente e qualitativamente da quella ontico-esistentiva senza che le ricadute su quest’ultima siano ogni volta in grado di modificarle entrambe? Non è forse questa la mancanza di dialettica cui si riferisce Adorno?

In altri termini, non siamo qui di fronte a quella fittizia desoggettivizzazione del soggetto di cui parla il filosofo francofortese, che poi coinciderebbe con una sostanzializzazione dell’approccio fenomenologico proposto da Husserl?

In questo caso, gli interrogativi aperti dalla critica di Adorno ricondurrebbero al problema dell’uso che Heidegger fa del metodo fenomenologico e consentirebbero d’individuare in tale uso l’origine stessa di quella differenza ontologica la cui trattazione sta secondo me alla base tanto dell’ambiguità dell’«Esserci» che dello stesso gergo heideggeriano.

La critica di Adorno si dimostrerebbe quindi pertinente quando contesta quella sostantificazione dell’Esserci che non comporterebbe solo l’attribuzione di un sostrato ad un’essenza, ma anche un rovesciamento del rapporto fra soggetto e predicato, nonché una svalutazione progressiva del primo a vantaggio del secondo. Nella pretesa di far perno sulla nozione di Esserci e sulla differenza ontologica che questi includerebbe tale nozione finirebbe infatti con l’assomigliare ad una sorta di caricatura astratta dell’essere umano, in quanto effetto di una stratificazione di disposizioni ontologicamente diverse, in realtà costrette a convivere nella limitatezza spaziale e culturale dello stesso punto di vista ontico, ma in grado di accedere ad un’esistenza autentica solo conseguendo la presa di coscienza ontologicamente pura del proprio limitato orizzonte temporale.

Forse è proprio questa vocazione «geologica» a supporre nello stesso soggetto lo stratificarsi di dimensioni ontologicamente differenti che sospinge il gergo heideggeriano ad «ingravidare le parole» — come si esprime a questo proposito Ortega y Gasset — ed è probabilmente a questa attitudine che il gergo deve il suo successo per l’effetto di profondità che sa suscitare, lo stesso successo che è stato spesso decretato per ogni «teologia mascherata».

Il fatto che anche la filosofia hegeliana sia incorsa in questo genere di critica, che nulla toglie a quanto di vero e di nuovo essa è stata capace di cogliere nell’esperienza umana e nei rapporti tra la conoscenza, l’autocoscienza e la realtà, potrebbe tuttavia far pensare che il pensiero di Heidegger venga tutt’al più ridimensionato da simili obiezioni, ma non invalidato nei suoi contenuti fondamentali, o almeno che non dovrebbe esserlo qualora fosse possibile depurarlo dall’ontologia cristallizzata nel proprio gergo; qualora si pensi cioè che sia possibile separare il gergo dall’ontologia.

In altre parole, come parrebbe suggerire Calogero, si potrebbe ipotizzare che, se Heidegger avesse costruito la propria ontologia senza ricorrere al proprio gergo, questa avrebbe potuto svilupparsi altrimenti, senza prestare il fianco ad obiezioni come quelle che fino a qui prese in esame. Ma alla luce di tale esame è chiaro che una simile rinuncia avrebbe comportato per la filosofia heideggeriana il rimanere confinata in quella dimensione ontico-esistentiva che intendeva superare. Ne sarebbe probabilmente scaturita una filosofia simile a quelle esistenzialistiche — da cui lo stesso Heidegger volle prendere le distanze — di Sartre o Jaspers; oppure qualcosa per certi versi analogo al «raziovitalismo» di Ortega, rispetto al quale tuttavia la distanza pare ancora maggiore. La riflessione di Ortega dovrebbe infatti essere interpretata — qualora volessimo servirci delle categorie heideggeriane — in una dimensione ontico-esistentiva: in essa il soggetto umano concreto occupa ancora il suo posto di soggetto e l’Esserci si chiama ancora «vita», con tutte le implicazioni biologiche che tale termine comporta, incluse le tracce di positivismo che Heidegger ha potuto scorgervi (En, 2).

Nonostante ciò, seppur in questo linguaggio prosaico e ontologicamente indifferenziato, Ortega — che tra l’altro condivide con Heidegger delle comuni radici neokantiane, anche se prevalentemente riferibili alla scuola di Marburgo piuttosto che a quella di Heidelberg — dice cose a volte simili a quelle contenute in Essere e tempo. Infatti, sebbene il filosofo spagnolo non sia giunto a costruire un linguaggio specifico per la sua filosofia a partire da quella differenza ontologica fondamentale, si può forse affermare, usando il linguaggio di Heidegger, che entro uno scenario ontico-esistentivo egli abbia saputo «predelineare» alcuni temi e concetti fondamentali della filosofia heiddeggeriana.

Confrontando le sue osservazioni con le critiche avanzate da Adorno e da Calogero che abbiamo già visto se ne può trarre l’impressione che — pur appartenendo questi tre pensatori a diverse aree geografiche e tradizioni culturali — a proposito del «gergo» condividano alcune riserve, e che inoltre individuino il limite principale, o comunque la chiave volta, della filosofia heideggeriana proprio nella sostantificazione gergale di una proprietà essenziale in quanto veicolo di un rovesciamento di posizioni tra essenza ed esistenza.

Secondo Adorno, abbiamo visto, Heidegger non vuole solo attribuire una prerogativa a suo avviso essenziale ad un sostrato (l’essere umano), ma vorrebbe sostenere che quell’essenza è un sostrato, che essa è il vero e autentico soggetto nel senso hegeliano. E non si tratterebbe soltanto di un espediente dialettico, né solo di un passaggio utile alla genesi della sua riflessione, ma di un aspetto assolutamente originale e discriminante dell’impostazione della sua ontologia, aspetto che ha contribuito, forse più di ogni altro, tanto a sanzionarne il successo presso discepoli sovente acritici quanto a suscitare reazioni denigranti.

Se molti suoi seguaci o imitatori hanno infatti puntato tutto sulla mimesi del gergo ontologico-esistenziale come se fosse possibile svilupparla in maniera autonoma e come se l’intera esperienza umana potesse autenticarsi solo mediante esso, i suoi denigratori si sono spesso dimostrati sordi all’apporto virtuale del suo pensiero eventualmente degergalizzato, considerando l’esibizione del gergo come un aspetto caratterizzante. Lo stesso Adorno — che pur non sembra aver avuto particolari problemi a comprenderlo bene — pare a tratti nei suoi riguardi di gran lunga più sordo di quanto non si fosse dimostrato verso altri esponenti della tanto deprecata filosofia dell’interiorità, come per esempio Kierkegaard.

La «sordità» di Adorno sembra tuttavia poca cosa rispetto a quella dimostrata dallo stesso Heidegger proprio nei suoi confronti, se è vero che, ancora nel 1969, poteva dichiarare a Richard Wisser di essersi rifiutato di leggerlo, pur essendo a conoscenza dell’esistenza delle sue critiche nei propri confronti (cfr. Pg, 94-95). Quest’atteggiamento distaccato, se non sprezzante, può essere stato occasionato dalla dichiarazione di Adorno al suo rientro in Germania dopo la guerra — e della quale Heidegger era venuto a sapere — secondo cui nel giro di cinque anni avrebbe ridimensionato la sua filosofia (cfr. ibidem); ma in maniera più sostanziale può essere ricondotto alle osservazioni di Adorno sopra riportate: non è infatti la relativa o presunta difficoltà di Heidegger che costituisce un problema. Adorno mette in chiaro che la vera questione è l’aver forgiato un gergo autoreferenziale, che tende a sottrarsi per vocazione al confronto dialogico e dialettico, in quanto una volta che si accetta il gergo — e lo deve fare chiunque non voglia essere sospettato di fraintendimenti fatali — si devono anche accettare le principali scansioni concettuali del pensiero heideggeriano.

D’altra parte, se fosse realmente possibile formulare le tesi di Heidegger in altro modo, parafrasarlo senza scalfirne il senso, verrebbe da interrogarsi a maggior ragione sulla funzione e l’utilità del gergo, per cui, in modo piuttosto lungimirante, molti seguaci hanno scelto di assecondarlo, o comunque non se la sono sentita di rinunciarvi, dimostrando così di ritenerlo fondamentale per la sua piena comprensione. Anche quegli studiosi di Heidegger che non condividono, in tutto o in parte, la sua filosofia, per un rispettoso spirito scientifico si sono spesso sentiti in dovere non solo di misurarsi con esso, come fa anche Adorno, ma di appropriarsene e di riprodurlo senza fargli subire sostanziali alterazioni, come se questa fosse l’unica prova tangibile della piena comprensione del suo pensiero, o comunque una condizione necessaria.

5. Ortega y Gasset e Martin Heidegger

Le riserve manifestate nei riguardi di Heidegger da Ortega — il quale si è comunque in più occasioni professato un suo ammiratore — potrebbero venire anch’esse ricondotte alla considerazione che per il filosofo spagnolo non solo è illegittimo trasformare sostrati in essenze, ma che nessun sostrato umano è riducibile ad una sua presunta essenza, in qualsiasi modo la si consideri, costituendo piuttosto la risultante di un complesso di modalità d’essere e di prospettive culturali che interagiscono tra loro senza stratificarsi necessariamente secondo una determinata struttura ontologica, e pertanto senza aver bisogno di alcun gergo particolare per giustificare tale struttura inglobandone i riferimenti salienti in ogni scansione concettuale.

Sotto questo profilo, la filosofia orteghiana potrebbe assomigliare per certi versi a quello che sarebbe potuta essere quella di Heidegger una volta passata al setaccio delle critiche del filosofo francofortese, ma anche di quelle di Calogero e di Löwith.

Ortega può infatti fornirci un valido esempio di come sia possibile introdurre certe tematiche ed incentrarvi la propria riflessione anche facendo a meno di un gergo specifico e conservando un livello stilistico di esemplare intelligibilità. Lasciando i concetti nella loro forma prosaica, in un rapporto di continuità con la riflessione che li ha originati e con l’esperienza della vita che ne costituisce lo sfondo, potremmo dire, citando ancora una volta le parole di Adorno, che l’argomentazione orteghiana trascende «ciò che dice tramite ciò che dice nel corso del pensiero», trascendendo quindi ogni volta sé stessa in forma dialettica.

Quest’aspetto della sua opera e del suo stile non costituisce un effetto involontario di scarso rilievo: «la mia più grande preoccupazione» — scrive infatti Ortega — «è che anche il lettore meno colto non si perda in questi luoghi impervi in cui l’ho portato: ciò mi costringe a ripetermi più volte e a distinguere le tappe della nostra traiettoria» (Au, 266).

Così come Adorno, anche Ortega affronta il tema del linguaggio heideggeriano, e anche a suo giudizio Heidegger «non è né più né meno difficile di qualsiasi altro pensatore privilegiato, cioè che abbia avuto la fortuna di vedere per la prima volta paesaggi finora mai visti» (Fe, 174). Tuttavia, a differenza di Adorno, oltre ad essere un critico a volte severo di Heidegger, Ortega è anche un suo estimatore, e tale posizione ambivalente si riflette in particolare nell’analisi del suo «gergo» filosofico.

Nelle breve saggio sul convegno di Darmstadt del 1951 egli per esempio così si esprime a proposito dello stile heideggeriano: «Heidegger, come ogni grande filosofo, ingravida le parole e da queste poi emergono i più meravigliosi paesaggi con tutta la loro flora e tutta la loro fauna» (Fe, 173). Sembra una dichiarazione di stima incondizionata, e tuttavia, nello stesso scritto, troviamo anche il passo seguente:

Heidegger è profondo sia che parli del «bauen» che di qualsiasi altra cosa. Ma siccome so dire soltanto quello che penso e devo dire quasi tutto ciò che penso, ho bisogno di aggiungere che non solo è profondo ma che, inoltre, vuole esserlo, e questo già non mi va più bene. Heidegger, che è geniale, soffre di mania di profondità. Perché la filosofia non è soltanto un viaggio verso il profondo. È un viaggio di andata e ritorno ed è quindi anche portare il profondo in superficie e renderlo chiaro, evidente, ovvio. Husserl, in un famoso articolo del 1911, disse che considerava un’imperfezione della filosofia quello che in essa era sempre stato lodato, cioè la profondità. Nella filosofia si cerca precisamente di rendere evidente ciò che è latente, di portare in superficie ciò che è profondo, di arrivare a concetti chiari e distinti, come diceva Cartesio (Fe, 173-174).

Pur non considerando Heidegger un pensatore difficile Ortega, reputando la chiarezza un pregio essenziale di ogni filosofia, in quanto sintomo della piena consapevolezza conseguita sui temi che tratta, ritiene che il pensatore tedesco vi rinunci spesso a causa della sua mania di «profondità» e di una certa tendenza a «sguazzare nell’abissale» (cfr., Fe, 174). Ciò non toglie tuttavia che apprezzi il suo stile e non ne risparmi le lodi. Difficile, secondo Ortega, non è Heidegger, ma veramente difficili — e ingiustificatamente difficili — sono Kant, Fichte, Hegel,

perché nessuno dei tre vide mai con piena chiarezza ciò che pretendeva di aver visto. Questa affermazione sembra insolente, ma coloro che hanno studiato bene questi tre pensatori geniali sanno che è vero, anche se non hanno il coraggio di dichiararlo. No, Heidegger non è difficile; anzi Heidegger è un grande scrittore. Questo suonerà agli orecchi di non pochi tedeschi come un nuovo paradosso. Proprio a Darmstadt ho sentito dire con mia sorpresa, da molte persone, come cosa già decisa e scontata, che Heidegger tormenta la lingua tedesca, che è un pessimo scrittore. Mi dispiace di dover dissentire totalmente da una simile opinione. (Fe, 175).

Ortega giunge a dire che — tenendo conto delle difficoltà che ogni filosofo autentico si trova di fronte — quello di Heidegger gli sembra «uno stile meraviglioso» (Fe, 176). Ogni pensatore infatti «si trova davanti alla lingua in una situazione abbastanza drammatica», di fronte alla quale «non ha altra scelta che crearsi un linguaggio perfino per intendersi con se stesso (Fe, 178)».

«Stando così le cose» — si chiede ancora Ortega — «in cosa consiste un buono stile filosofico? Secondo me consiste nel fatto che il pensatore, evadendo dalla terminologia vigente, si immerge nella lingua comune, ma non per usarla e basta, per usarla così com’è, ma riformandola partendo dalle proprie radici linguistiche, tanto nel vocabolario come, a volte, nella sintassi (Fe, 178-179)». Da questo punto di vista Heidegger avrebbe la capacità di trapassare e annullare il senso corrente e più esterno della parola, facendo invece emergere dai suoi strati semantici sottostanti il senso fondamentale, da cui i significati più superficiali provengono e che parallelamente nascondono (cfr. Fe, 179).

Secondo Ortega lo stile è sempre, sia nelle arti, sia nella vita, «qualcosa che ha a che vedere con la voluttuosità, è una forma sublimata della sessualità», e quello filosofico di Heidegger, «così egregiamente riuscito, consiste soprattutto nell’etimologizzare, nell’accarezzare la parola nella sua radice arcana» (Fe, 180).

Rispetto al problema dello stile filosofico Heidegger non costituisce certo per Ortega il caso più discutibile, ma tale problema sembra invece riguardare l’intera tradizione filosofica. «Un buono stile filosofico è stato molto poco frequente nel passato. L’argomento non è mai stato toccato. Nessuno, che io sappia, si è occupato dello stile filosofico e della sua storia. Se qualcuno lo facesse troverebbe molte sorprese…» (Fe, 181).

Ad un primo sguardo, le maggiori riserve di Ortega non sembrano quindi collegate all’aspetto stilistico dell’opera heideggeriana, ma andrebbero piuttosto ricercate nel modo di tematizzare e sviluppare alcuni concetti affini reperibili nell’opera dei due autori.

Di fronte al dubbio, avanzato da alcuni suoi contemporanei, che la sua filosofia abbia attinto ampiamente da quella del filosofo tedesco, Ortega, pur riconoscendo e sottolineando alcune affinità di fondo, tiene a precisare che sono al massimo due o tre i concetti di Heidegger che non preesistano, a volte con una anteriorità di tredici anni, nei suoi saggi (Fi, 266).

«Occuparsi dell’avvenire è pre-occuparsi. L’avvenire ci occupa perché ci preoccupa: Heidegger ha chiamato questo «Sorge», ma io lo chiamavo già da molti anni prima — e l’ho pubblicato nel 1914 — «preoccupazione»» (Fe, 236).

Ma in questo contesto, nel rivendicare cioè l’autonomia e talvolta la priorità del suo pensiero rispetto a quello heideggeriano e nel contrapporgli in modo sottile la migliore pertinenza del proprio lessico filosofico alle problematiche che si propone d’introdurre, si spinge ad avanzare critiche che mettono in una luce completamente diversa gli elogi che abbiamo visto in precedenza e che rivelano anche qualche analogia con le critiche mosse da Adorno.

L’esagerazione del concetto d’essere praticata da Heidegger si spiega facendo notare che la sua formula «l’uomo si è sempre interrogato sull’essere» o «s’interroga per l’essere» acquista senso solo se per essere intendiamo tutto quello su cui l’uomo si è interrogato; cioè, se facciamo dell’essere il gran gattopardo, «la bonne à tout faire» e il concetto omnibus. Però questa non è una teoria; questa inflazione del concetto d’essere sopravviene proprio quando tutto raccomandava l’operazione contraria: restringere, precisare il suo significato (Pl, 270).

Come se non bastasse, Ortega sostiene che in Essere e Tempo Heidegger dimostra di non avere idee abbastanza chiare su cosa sia «l’essere» di cui parla con tanta insistenza.

È inconcepibile che in un libro intitolato Essere e Tempo, dove si pretende di «distruggere la storia della filosofia», in un libro, inoltre, composto da un calvo e furioso Sansone, non s’incontri la minima chiarezza su ciò che significa «Essere», e tuttavia s’incontri questo termine modulato in innumerevoli variazioni flautate. (Pl, 275).

Poi la sua critica si fa più mirata e spregiudicata. Heidegger distingue infatti secondo lui tre tipi di essere:

l’essere come servire per qualcosa, che è il modo di essere degli utensili o strumenti (Zuhandensein); l’essere del martello e dei martelletti. L’essere come «trovarsi qui» — ciò che incontriamo qui — (Vorhandensein), e l’essere come «stare nel qui» (Da-sein), che è l’essere dell’uomo; e che in Heidegger prende il posto del consueto e naturale termine «vita» con l’arbitrarietà terminologica che è sempre stata frequente nei pensatori germanici; i quali, non sono semplicemente «soli» come ogni creatura umana, ma convertendosi in modo anomalo in «solitari» rinchiusi dentro di sé, «autistici», invertono il linguaggio destinato a far comunicare l’individuo col suo prossimo e si mettono a parlare con se stessi inventando una lingua di uso intimo e intrasferibile (Pl, 275-276).

Che significato assumono dunque, alla luce di questi passi, i precedenti elogi allo stile heideggeriano? Possibile che lo stile «meraviglioso» di cui parlava poc’anzi fosse capace di così poca chiarezza su temi tanto fondamentali? Difficile crederlo, soprattutto considerando l’importanza attribuita da Ortega proprio alla chiarezza e distinzione che dovrebbe caratterizzare le idee filosofiche.

Le precedenti e apparentemente contrastanti valutazioni potrebbero tuttavia risultare compatibili qualora interpretassimo quegli apprezzamenti come venati da una riserva ironica di stampo socratico, e li considerassimo rivolti alla loro efficacia retorica piuttosto che alla loro chiarezza e pregnanza teoretica. Tuttavia, sebbene la prosa di Ortega sia spesso venata da una certa ironia, l’importanza che l’opera di Heidegger ha avuto nello sviluppo della filosofia orteghiana induce piuttosto a ritenere di trovarci di fronte a un giudizio oscillante e ambivalente, sulla cui linea divisoria vale la pena di soffermarsi.

Se da un lato infatti Ortega apprezza lo stile di Heidegger al punto di ritenerlo capace di accarezzare le parole fino alle loro più arcane radici e di «mettere il lettore in immediato contatto con l’etimologia della lingua tedesca», permettendogli addirittura di risalire fino all’anima collettiva tedesca, tale stile lascia però trasparire a suo avviso — come abbiamo visto — una certa mania di profondità, tende cioè a gonfiare i concetti, e primo tra tutti quello di «essere», il quale, nonostante le molte pagine che gli sono dedicate, rimane secondo Ortega sostanzialmente non chiarito.

Anche la sostituzione del termine «vita» con quello di «Hallarse ahí» (Dasein) testimonierebbe secondo Ortega della diffusa arbitrarietà terminologica sempre presente nei pensatori tedeschi, i quali sarebbero portati a usare il linguaggio non per comunicare innanzi tutto con altri esseri umani, ma essenzialmente per comunicare con sé stessi, dando vita a linguaggi privati non trasferibili (Pl, 276). Se quest’ultima attitudine è propria di ogni linguaggio, nel caso di Heidegger essa sembra sviluppata in maniera ipertrofica, tale cioè da comportare un’atrofia dell’altra irrinunciabile funzione di ogni linguaggio, ovvero di quella che aspira a farsi intendere dagli altri e a intenderli (Ibidem; nota).

Venendo ora alle critiche più specificatamente teoretiche, si può notare come queste siano strettamente collegate ad osservazioni «stilistiche», che ci accompagnano quindi fino al cuore delle riserve orteghiane sulla filosofia di Heidegger. Pur considerando Essere e Tempo un’opera «mirabile» (Fi, 266) e pur dichiarando il proprio debito nei confronti della filosofia tedesca in generale (Fi, 267), Ortega — lo abbiamo visto — sostiene che nell’opera heideggeriana vi sono appena due o tre concetti che non preesistessero, «a volte con una anteriorità di tredici anni», nei suoi libri. Senza entrare qui nel merito di tale convinzione, bisogna però notare che se il pensatore castigliano rivendica in più occasioni l’indipendenza della propria filosofia da quella di Heidegger, una simile rivendicazione può aver senso solo nella misura in cui abbia riscontrato delle effettive analogie tra le rispettive opere. In effetti, Ortega ritiene senz’altro giusto affrontare la questione dell’essere, ma non pensa che Heidegger lo abbia fatto con quel radicalismo che era necessario. In Essere e Tempo, a suo avviso, in fondo non si fa altro che distinguere diversi sensi dell’essere stesso, indagando varie classi di enti e differenziandole da quell’ente unico che è il «Dasein», senza tuttavia porsi l’unica domanda radicale che ci si poteva porre in proposito, ovvero cosa voglia dire l’interrogarsi su «che cosa è qualcosa» prima di sapere a quale classe di enti questo qualcosa appartenga. Non essendosi posto questa semplice domanda — che non parte dal «chi» s’interroga, ma dall’essere stesso dell’ente interrogato prescindendo dalle qualità che ne fanno un tipo particolare di ente — Heidegger avrebbe finito col girarle intorno gonfiando il concetto di essere, ed estendendolo «a ogni ultimità sulla quale l’uomo si interroga, risultando che l’uomo stesso è domanda dell’essere se per essere si intende tutto quello di ultimativo sul quale l’uomo si interroga» (Fi, 261).

In pratica, secondo l’Heidegger di Ortega, l’uomo sarebbe, in quanto Esserci, quell’ente particolare che si interroga sul senso dell’Essere come senso ultimativo, e pertanto l’Essere risulterebbe comprensibile solo a partire da tale interrogazione dell’Esserci; ma in questo modo l’essere dell’Esserci stesso finisce col costituire a sua volta il soggetto di tale domandare, che quindi non farebbe altro che interrogarsi su sé stesso.

In questa disamina orteghiana credo si possa scorgere quel rimprovero di soggettivismo o idealismo mascherato che già abbiamo visto costituire uno dei momenti salienti della critica sia di Calogero che di Adorno, soggettivismo che, sebbene celato da un circolo vizioso, a sua volta camuffato abilmente in «un gioco di parole», finirà col condurre Heidegger in «un vicolo cieco», consentendo allo stesso Ortega di prevedere con largo anticipo il mancato completamento di Essere e Tempo (Fi, 261).

Sebbene imputi alla filosofia heideggeriana di essere un po’ troppo «melodrammatica», fino a paragonarla ad una sorta di «meditatio mortis» (Sa, 131-132), e interpreti la pretesa di Heidegger di prendere le distanze dall’esistenzialismo in generale come l’effetto di un tipico «snobismo intellettuale» (Fe, 165, nota), Ortega considera comunque Heidegger come «uno dei più grandi filosofi mai esistiti» (Fi, 262) e giudica quella che era a suo avviso l’intuizione fondamentale di Essere e Tempo — ovvero il ritenere la vita come un compito, come un «aliquid faciendum» — sostanzialmente affine al suo modo d’intendere la vita nell’ambito della propria filosofia.

Tra tutte le riserve avanzate da Ortega, quella che imputa ad Heidegger di proporre dei giochi di parole per mascherare dei circoli viziosi mi pare invece la più pertinente, anche perché — oltre a costituire il momento comune con l’analisi svolta da Adorno rispetto al «gergo heideggeriano», analisi che tuttavia procede del resto in modo tutt’affatto indipendente — una simile obiezione è già presa anticipatamente in esame dallo stesso Heidegger in Essere e tempo. Nel secondo paragrafo infatti Heidegger scrive che l’elaborazione del problema dell’essere significa:

render trasparente un ente (il cercante) nel suo essere. La posizione di questo problema, in quanto modo di essere di un ente, è anche determinata in linea essenziale da ciò a proposito di cui in esso si cerca: dall’essere. Questo ente, che noi stessi sempre siamo e che fra l’altro ha quella possibilità d’essere che consiste nel porre il problema, lo designiamo col termine Esserci (Dasein). La posizione esplicita e trasparente del problema del senso dell’essere richiede l’adeguata esposizione di un ente (l’Esserci) nei riguardi del suo essere.

Ma un’impresa del genere non incorre in un evidente circolo vizioso? Che cos’è se non un muoversi in un circolo vizioso determinare un ente nel suo essere e poi pretendere di impostare su tale determinazione il problema dell’essere? L’elaborazione del problema non assume già come «presupposto» ciò che solo la soluzione del problema è in grado di apportare? Le obiezioni formali, come quella del «circolo vizioso nella dimostrazione», sempre facile a sollevarsi a carico d’indagini sui principi, sono sempre sterili in sede di riflessione sui procedimenti concreti della ricerca. Esse non hanno alcun peso nella comprensione delle cose e impediscono il progresso dell’indagine.

Ma in effetti, nell’impostazione del problema da noi discusso, non ha luogo alcun circolo vizioso. Un ente può esser determinato nel suo essere senza che debba per ciò stesso esser già disponibile il concetto esplicito del senso dell’essere. Se così non fosse, non si darebbe ancora fino ad oggi alcuna conoscenza ontologica, mentre la sussistenza di essa è ben difficilmente negabile. L’essere è senz’altro presupposto da tutte le ontologie finora esistite: ma non come concetto disponibile, non come ciò di cui si va alla ricerca. La «presupposizione» dell’essere ha il carattere di un colpo d’occhio preliminare sull’essere, in modo che, in base a questa prima ispezione, l’ente in esame venga provvisoriamente articolato nel suo essere. Questo colpo d’occhio direttivo sull’essere nasce da quella comprensione media dell’essere in cui già da sempre ci muoviamo e che, alla fine, appartiene alla costituzione essenziale dell’Esserci. Un «presupporre» del genere non ha nulla a che fare con l’assunzione di un principio da cui si ricavano deduttivamente delle conseguenze.

Nell’impostazione del problema del senso dell’essere non può aver luogo alcun «circolo vizioso», perché la risposta a questo problema non ha il carattere di una fondazione per deduzione, ma quello di una ostensione che fa vedere il fondamento.

Nel problema del senso dell’essere non ha luogo alcun «circolo vizioso», bensì un singolare «stato di retro- o pre-riferimento del cercato (l’essere) al cercare quale modo di essere di un ente. L’influenza essenziale che il cercare subisce dal suo cercato fa parte del senso più proprio del problema dell’essere. Ma ciò significa soltanto che l’ente che ha il carattere dell’Esserci ha un rapporto col problema dell’essere stesso, rapporto che forse è anche del tutto particolare. Ma con ciò non abbiamo già dimostrato il primato ontologico di un ente e presentato l’ente esemplare che deve fungere da interrogato primario nel problema dell’essere? Le discussioni che abbiamo fatto finora non hanno né dimostrato il primato dell’esserci né deciso a proposito della sua funzione possibile o anche necessaria di interrogando primario. Tuttavia si è annunciato qualcosa come un primato dell’Esserci» (Et, 23-24).

Alla luce di questo lungo passo si può ritenere che il problema del «circolo vizioso» che viene sollevato da Ortega sia anche per Heidegger un problema che può, rispetto alla sua impostazione della tematica dell’essere, sorgere in maniera spontanea; e sebbene, stando alla sua risposta, non si tratti di un vero circolo vizioso, l’assunzione dell’Esserci come luogo privilegiato da cui porre il problema dell’essere pare sia destinato, fin da queste pagine, a condizionare in maniera determinate tutta l’analisi successiva.

Ma per quale motivo secondo Heidegger l’obiezione virtuale di cadere in un circolo vizioso non sarebbe un’obiezione pertinente? Essenzialmente, pare di capire, perché non siamo di fronte ad una fondazione di tipo deduttivo, ovvero non siamo di fronte ad una fondazione analoga a quella propria della geometria euclidea, dell’Etica spinoziana o anche della stessa prova ontologica di S. Anselmo e Cartesio. Qui non verrebbe presupposto nelle premesse ciò che poi si troverebbe nella conclusione, ma piuttosto il cercato (l’Essere) verrebbe indagato a partire da una sua modalità particolare e accertata solo in via preliminare e provvisoria, ovvero a partire da quell’ente particolare che è l’Esserci, e che è particolare proprio in quanto si interroga sul senso dell’essere. In effetti, sebbene non siamo di fronte ad un circolo vizioso deduttivo, potremmo chiederci tuttavia se la risposta di Heidegger possa sanare l’obiezione avanzata da Ortega. Il fatto che un concetto, per quanto in sospeso possa essere, venga utilizzato (come «cercato») per chiarirne un altro (L’Esserci) che a sua volta s’interroga sul senso dell’essere che gli coappartiene, sebbene non sia un circolo vizioso di tipo deduttivo, potrebbe essere considerato un circolo vizioso definitorio, che pur potendo rivelarsi utile al fine di chiarire il mutuo rapporto dei concetti che si vogliono definire, rischia di trasformare tutta l’impostazione e lo sviluppo del problema in esame in una rete di rimandi reciprochi, la quale, a sua volta, sarebbe poi facilmente scambiabile per una struttura di tipo argomentativo. In questo caso, sia le obiezioni di Adorno che quelle di Ortega resterebbero insoddisfatte, in quanto la circolarità definitoria permette, nello sviluppo della riflessione, di dar vita ad architetture teoretiche che hanno tuttavia la pretesa di dimostrare qualcosa e che si reggono pur sempre sulla circolarità definitoria proposta in sede preliminare. È quanto sostiene lo stesso Heidegger quando, verso la fine del brano citato, precisa che, fino a quel momento, non è stato dimostrato il primato dell’Esserci, ammettendo tuttavia che esso è stato annunciato, e sottintendendo che esso verrà in seguito dimostrato. Ora, è evidente che per dimostrazione egli non intende qui quel tipo di ragionamento che procede per via deduttiva: Essere e tempo non ha certo la struttura dimostrativa de l’Etica spinoziana, né potrebbe averla. Ma allora, a quale altro tipo di dimostrazione può riferirsi se non a quella struttura definitoria suscettibile di sviluppo che è già preannunciata fin dal suo primo elemento fondamentale, ovvero fin dall’iniziale inerenza e coappartenenza reciproca dell’Esserci e dell’essere, del «cercante» e del «cercato»?

In qualsiasi disciplina scientifica, ma anche da buona parte della tradizione filosofica classica, una definizione che comporti un riferimento al soggetto all’interno del predicato sarebbe ritenuta quantomeno scorretta. Il dire per esempio che un certo concetto, o ente X, è definibile come il rapporto che sussiste tra tale ente X e tal altro ente Y introduce inevitabilmente in un circolo vizioso, giacché è evidente che l’X «definiendum» non può essere usato nello stesso modo dell’X «definiens». In questo caso, infatti, si sarebbe potuto semplicemente sostenere che una caratteristica fondamentale di X consiste nel il suo modo di rapportarsi ad Y (ovvero, per esempio, che una caratteristica essenziale dell’essere umano è l’interrogarsi sul senso dell’essere in generale alla luce del senso del proprio essere; l’essere essenzialmente sospeso al senso e all’esito di tale domanda), cosa che è esattamente quanto Heidegger si guarda bene dal fare per evitare di ricadere di nuovo in una dimensione ontico-esistentiva di tipo soggettivistico, che tra l’altro avrebbe reso superfluo e ridondante il suo gergo.

Proprio per questo, una simile «viziosità» definitoria, che caratterizza il nuovo soggetto «Esserci», è cosa ben diversa dal «circolo ermeneutico». Nella storia della filosofia e della cultura questo era già attivo molto prima dell’opera heideggeriana e della sua successiva «urbanizzazione». Esso non dovrebbe secondo Heidegger «essere degradato a circolo vizioso e neppure ritenuto un inconveniente ineliminabile», poiché in esso si nasconderebbe «la qualità positiva del conoscere più originario»; ma in definitiva, nonostante queste avvertenze, rimane piuttosto arduo distinguere una forma di circolarità feconda da una viziosa. Il problema concerne semmai, più che la viziosità o meno di tale struttura circolare, che secondo Heidegger si fonda sulla stessa struttura del «Dasein» (Et, 194-195), il modo in cui essa opera, e a questo riguardo pare improbabile che prima dell’avvento del «Dasein» non sia mai stata attiva in maniera feconda per la conoscenza, anche se forse non per la più «originaria». Una tale struttura circolare infatti non è ricavabile solo da «Dasein», ma anche dalla vecchia nozione di autocoscienza una volta che se ne sia messo in luce il carattere di apertura e di sospensione rispetto al senso del proprio essere che la contraddistinguono. Lo stesso «circolo ermeneutico» può essere infatti legittimamente attribuito ad ogni soggetto umano in qualità «d’interprete di sé stesso», non essendo affatto necessaria alla sua introduzione tematica né all’analisi fenomenologica della sua attività la fondazione di un nuovo tipo di sostanza, nemmeno quando questa serva ad identificare «l’ente per cui, in quanto esser-nel-mondo, ne va del suo essere stesso». È anzi chiaro che per ogni essere umano, in quanto inevitabilmente «interprete di sé stesso», vale ciò che Heidegger sostiene dell’Esserci, e cioè che «ha un rapporto con l’Essere per cui ne va del proprio essere»; ma proprio per il fatto che questa caratteristica essenziale può essere predicata di ciascun essere umano non è necessario costruire una nuova entità idonea a veicolare un tale requisito, né coniare per essa un nuovo termine per il solo motivo che questo sarebbe portatore di quella differenza ontologica di cui recherebbe le tracce gia nella semantica del suo etimo.

6. Il gergo e il circolo ermeneutico

Del resto, leggendo Heidegger si può avere spesso l’impressione che vi regni incontrastata una certa tendenza ad utilizzare pregiudizialmente un simile modello definitorio. Nella sua teorizzazione de «l’In-essere dell’Esserci», che si rapporterebbe innanzi tutto agli enti in quanto «utilizzabili», egli conforta la sua interpretazione di tale presunto rapportarsi dell’Esserci al suo mondo-ambiente facendo l’esempio del martello, al quale l’Esserci si rapporterebbe a partire dalla sua «appagatività» (Bewandtnis), dalla sua funzionalità rispetto ad altro, e non certo in quanto oggetto virtuale di una presa di coscienza o di un atto comunque di tipo conoscitivo. La strumentalità del martello verrebbe prima, sarebbe anteriore, in rapporto all’Esserci, rispetto a qualsiasi altra sua vocazione ontica del suo essere. Ma perché Heidegger sceglie l’esempio del martello — che in effetti nasce proprio per essere uno strumento e nient’altro che uno strumento — e non quello di un albero o di un animale? Anche nei riguardi di un albero o di un animale l’Esserci si porrebbe in una relazione prioritariamente strumentale?

Anche se l’approccio conoscitivo e la stessa distinzione soggetto-oggetto fossero da ritenersi, così come Heidegger li intende, di natura essenzialmente difettiva, ciò non dimostra che il rapportarsi dell’Esserci agli enti intramondani sia di natura essenzialmente strumentale; giacché potrebbe, per esempio, essere di tipo religioso. Mentre tra gli storici dell’arte, ad esempio, c’è stata una lunga diatriba a proposito dell’interpretazione dei disegni di animali rinvenuti nella caverne preistoriche — che potrebbero essere la testimonianza di preparativi propiziatori alla caccia, ma anche di altrettanti momenti di sacralizzazione dell’animale cui si deve la vita per il nutrimento che sa offrire, una sua divinizzazione tutt’altro che utilitaristica, giacché non mira tanto a favorire la caccia, quanto a testimoniare la gratitudine del cavernicolo per l’animale-dio dispensatore di vita — in Essere e Tempo la possibilità di una simile duplice interpretazione non viene nemmeno presa in considerazione.

Rappresenterebbero per l’Esserci heideggeriano tali animali, oppure gli alberi, innanzi tutto dei meri strumenti, e solo successivamente qualcosa d’altro? E perché il ritenerli strumenti dovrebbe costituire un atteggiamento fenomenologicamente più accertato del ritenerli oggetti di uno stupore e di un culto di tipo religioso?

Il fatto che Heidegger si serva dell’esempio del martello — cioè di uno strumento vero e proprio, che ha la sua «appagatività» nell’essere tale, dimostrando quindi di possedere la strumentalità di uno strumento — potrebbe rivelare una volta di più che egli si serve con troppa disinvoltura di circoli viziosi mascherati da dimostrazioni.

Naturalmente, bisogna riconoscere che le definizioni a rischio di «circolarità» non sono state usate da Heidegger per la prima volta. Forse, chi ne ha fatto il maggior uso è stato Hegel, che se ne serve spesso in vari luoghi delle sue opere. Basti pensare per esempio alla celebre figura del servo-padrone, dove entrambe le posizioni delle due autocoscienze finiscono con l’inglobarsi a vicenda, fino a risultare interdipendenti. In quel caso, tuttavia, come sempre nel tipo di riflessione hegeliana, ci si muove in una prospettiva idealistica, giacché il soggetto che «ingloba» è sempre «l’autocoscienza» o «lo spirito», e in tale impostazione i due momenti che contribuiscono a definirsi reciprocamente sono sempre due momenti distinti nell’ambito del loro sviluppo complessivo e non tornano mai a riproporsi come nella fase iniziale del loro percorso dialettico, tanto da risultare paragonabili non ad entità ontologicamente definite una volte per tutte, come nel caso delle categorie heideggeriane, ma a due momenti dinamici all’interno di un processo di trasformazione reciproca.

E di momenti dinamici, piuttosto che di nuove sostanze portatrici di differenze ontologiche, si può parlare anche a proposito di un altro filosofo che fa ampio uso di relazioni circolari di questo tipo. Soren Kierkegaard, infatti, sebbene talvolta si serva di questo genere di definizioni, ne parla sempre per contraddistinguere una condizione in cui il soggetto umano può venire e trovarsi, e non il soggetto stesso. Nel trattare per esempio il concetto di «disperazione» Kierkegaard parla dell’Io come di «un rapporto che si rapporta a sé stesso». Con una formulazione di questo tipo sembra utilizzare un modello definitorio che, se da un lato ha la sua matrice nella dialettica hegeliana, dall’altro sembra preludere a un modo di procedere che sarà fatto proprio da Heidegger.

Ma mentre in Kierkegaard il sostrato di tale rapportarsi a sé stessi rimane l’io, lo spirito umano, inteso come luogo d’incontro tra possibilità e necessità, tempo-eternità, finito-infinito, in Heidegger questo rapportarsi viene — come gli imputa Adorno — trasformato in sostrato, nel senso che diviene un rapporto che si rapporta a se stesso.

Coerentemente con questa distinzione Heidegger, nonostante le attestazioni di stima per Kierkegaard, ritiene che la sua analisi non sia giunta a cogliere la differenza ontologica fondamentale che distingue l’essere da ogni altro tipo di ente. Pur avendo infatti esplicitamente afferrato e acutamente penetrato il problema dell’esistenza come problema esistentivo, la problematica esistenziale «gli è così estranea che egli, quanto alle prospettive ontologiche, resta completamente sotto il dominio di Hegel e della filosofia antica vista attraverso di lui» (Et, 29).

La somiglianza tra il modello definitorio che Kierkegaard adotta in maniera sporadica e asistematica e il modo in cui Heidegger parla dell’Esserci ha termine quando in Essere e Tempo questo diviene un’ipostasi ontologicamente privilegiata. Per Heidegger, infatti, la costituzione d’essere dell’Esserci implica «che l’Esserci, nel suo essere, abbia una relazione d’essere col proprio essere» (Et, 28). L’Esserci comprende «sempre sé stesso in base alla sua esistenza, cioè alla possibilità che gli è propria di essere o non essere se stesso» (Et, 29), e «il problema dell’esistenza è un affare ontico dell’Esserci». Ma rispetto a questa comprensione di sé stesso, che Heidegger definisce esistentiva, la sua analitica «non ha il carattere di una comprensione esistentiva, ma quella di una comprensione esistenziale» e «viene a dipendere dalla elaborazione preliminare del problema del senso dell’essere in generale» (ibidem).

Il fatto che Heidegger voglia prendere le distanze da Kierkeegard, se è imputabile principalmente a quella che considera, a torto o a ragione, la sua «estraneità alla problematica esistenziale», è quindi anche riferibile al diverso modo di utilizzare definizioni circolari: giacché mentre il filosofo danese, quando ad esempio parla della «disperazione» come di un «rapporto che si rapporta a sé stesso», si riferisce sempre ad una condizione propria del soggetto umano, nel caso di Heidegger questo «rapportarsi» dà vita ad una entità ontologicamente diversa e irriducibile a quelle di qualsiasi filosofia precedente.

In maniera più o meno esplicita, Ortega, Calogero e Adorno sembrano comunque rimproverare ad Heidegger di servirsi di un simile modello definitorio, nonché di un linguaggio calibrato ad hoc per mascherarne o giustificarne la viziosità. Gli aspetti comuni alla loro critica allo stile heideggeriano, che per Ortega conserva però molti pregi, possono considerarsi incentrati proprio sul ricorso a quest’arte sofistica, che anche secondo Löwith non è del tutto estranea nemmeno ad Essere e tempo, la cui struttura sistematica egli trova «notevolmente desultoria» (Lo, 6).

Pertanto, le domande poste all’inizio circa la possibilità di separare la critica al gergo heideggeriano da quelle proponibili nei confronti del complesso della sua filosofia pare debba ottenere una risposta negativa. Ma il motivo di ciò, il problema posto da ciò che Löwith chiama «l’astrusità di Heidegger» (ibidem), è riconducibile proprio ad un passaggio essenziale della sua riflessione fin da Essere e tempo, ovvero a quella differenza ontologica che non solo lo induce a servirsi delle procedure definitorie che abbiamo visto e a forgiare quelle che Adorno ritiene delle «ipostasi ontologiche», ma anche ad avvertire l’esigenza di costruire un linguaggio specifico per illustrarle e differenziarle da quelle impostazioni filosofiche del passato che non vanno, a suo parere, oltre un approccio ontico-esistentivo all’esistenza umana.

Se è vero che proprio l’impossibilità di dar vita ad un linguaggio adeguato per la terza parte di Essere e tempo ha indotto il suo autore a desistere dall’impresa di completare l’opera, una simile impossibilità e desistenza non paiono, alla luce delle osservazioni di Adorno e Ortega, né casuali né ingiustificate, specie considerando che pensatori come lo stesso Ortega, oppure Kierkegaard (nonostante «i mal di pancia» che lo stile di quest’ultimo pare procurasse al primo), si sono posti problemi analoghi a quelli che si è posto Heidegger, fornendo talora anche risposte simili, senza avvertire il bisogno di creare un linguaggio tanto esclusivo e ripiegato su stesso.

Quindi, l’origine di alcune delle riserve manifestate sia da Adorno che da Calogero ed Ortega potrebbe venir ricondotta proprio a quanto dal punto di vista di Heidegger costituisce il limite principale di altre filosofie «esistenziali»: l’essere rimaste confinate entro le radici ontico-esistentive del problema dell’essere; e, d’altro lato, proprio nel presunto accesso, da parte di Heidegger, ad una prospettiva ontologica essenzialmente distinta da quelle ontico-esistentive del passato dovrebbe essere ricercato il germe fondamentale del suo gergo filosofico. Esso costituisce infatti il supporto fondamentale di una filosofia incentrata su tale differenza, filosofia che pretenderebbe di sottrarsi all’alternativa tra realismo e idealismo proponendo un’idea radicalmente diversa sia dell’Essere che della «verità» rispetto a quelle proprie della metafisica classica, ma di fatto ricadendo in una sorta d’idealismo mascherato, barricato nella fortezza di una struttura categoriale autonoma ed esente da contaminazioni con le filosofie da cui intende differenziarsi, rispetto alle cui istanze critiche si dispone a preservare la propria «originaria» immunità.

7. Due lessici a confronto

A questo punto, prima di procedere verso le conclusioni, è opportuno però riesaminare alcuni passaggi della riflessione sin qui condotta. Il primo di questi concerne la critica che Calogero avanza nei confronti di Heidegger e per la quale in Cos’è Metafisica l’uomo sarebbe da un lato un principio del conoscere e dall’altro un individuo che sta in mezzo alle cose, il suo atto di conoscenza configurandosi quindi come «una irruzione di un «Seiende» nel «Seiende», di una realtà nella realtà» (LH, 10). Ora, non potrebbe tale critica essere ugualmente imputata ad Ortega quando scrive che «io sono io e la mia circostanza»? Non è forse anche l’io orteghiano afflitto dallo stesso Doppelcharakter per il quale è da un lato principio conoscitivo, soggetto dotato di una prospettiva teorica sul mondo, e d’altra parte oggetto di questa attività vitale che è la conoscenza e, più in generale, dell’autocoscienza?

Il già citato saggio di Calogero Eredità e sviluppo dell’idealismo può venirci in aiuto per chiarire questo punto. In questo saggio il filosofo italiano sostiene che la «risposta della tradizione idealistica al materialismo da un lato e all’esistenzialismo dall’altro si concreta in due esigenze, che non possono mai essere eluse»: da un lato quella di «ricordarsi che la realtà è sempre realtà per qualcuno, una realtà dal punto di vista di chi la guarda, una realtà in una prospettiva»; dall’altro «ricordarsi che la struttura di questi «centri di prospettiva» (si chiamino essi uomini, divinità, anime, spiriti, soggettività, coscienze, o come altrimenti si preferisca) dovrà essere radicalmente diversa da quella di tutto ciò che noi siamo abituati a considerare reale in ogni nostra immediata esperienza» (Fc, 252-253). Ora, «che ogni realtà sia sempre una «realtà per qualcuno», è principio che può essere facilmente ammesso anche dalla comune coscienza. Ma questa aggiungerà, di solito, che oltre alla molteplicità di tali prospettive, ciascuna delle quali risulterà sfasata di qualche grado a paragone della contigua, c’è poi l’unica sussistenza della realtà stessa in sé considerata, quale causa costante di tutte le diverse prospettive, risultante appunto dalla sintesi fra la struttura di quell’unica realtà stessa in sé e le situazioni delle varie soggettività che la esperiscono […]. Ma se poi ci si riflette, ci si accorge che il paragone non è fra una prospettiva e una realtà, ma solo fra due prospettive, e che non c’è nessun motivo per considerare l’una più prossima alla realtà di quanto sia l’altra». Se per esempio diversi osservatori guardano una montagna da diversi punti di vista, quale sarà — si chiede Calogero — la montagna in sé, la montagna vera? La sua risposta è perentoria:

Tutta l’evoluzione del problema gnoseologico, da venticinque secoli in qua, ha dimostrato che a tale domanda non c’è risposta, proprio perché non può essercene. Se c’è qualcosa che non posso mai fare, al mondo, è quella di uscire da me stesso. S’intende, non da «me stesso» in quanto determinato contenuto della mia esperienza, che potrebbe ben mutare anche nella sua intera estensione: ma da me stesso in quanto centro di tale esperienza, in quanto, come si dice, «io» o «egoità». E quindi ogni «realtà» è sempre «realtà mia», anche se è realtà di altri che io ricostruisca in me come tale, o faccia risorgere nella memoria come realtà del passato, l’attribuisca in tal caso a me stesso o ad altri (Fc, 254).

Senza soffermarsi qui sulle notevoli analogie tra questa riflessione di Calogero ed altre molto simili di Ortega (non ho potuto accertare se via sia stata un’influenza del secondo sul primo, o almeno una qualche conoscenza dell’opera orteghiana, cosa comunque probabile), è opportuno sottolineare come per Calogero questa sia «la verità fondamentale dell’idealismo», dalla quale «non è ormai possibile prescindere, come del resto non ne prescinde alcuna considerazione filosofica, che proprio non si racchiuda in una forma di materialismo arcaico».

È a questo punto che Calogero propone quel commento ad Heidegger che ho già citato, ma che preferisco riportare qui per maggiore chiarezza e completezza:

Accade bensì molto sposso — scrive — che questa verità si componga con verità opposte, in tentativi di conciliazione che conducono invece a confusioni. Così, per esempio (per limitarsi ad esperienze del mondo contemporaneo) l’esistenzialismo sente l’inevitabilità di questa esigenza, e Heidegger parla di «Jemeinigkeit», cioè del costante riferimento al «me» di qualsiasi esperienza; ma nello stesso tempo dice dell’esistenza, cioè della vita consapevole, che essa è «gettata nel mondo» (la «deiezione») in quel dato luogo dello spazio e del tempo, coinvolta in una realtà che la soverchia di gran lunga. Ora, altro è l’io che è contenente del mondo, altro è quello che ne è contenuto. Altra è quell’egoità di cui dico che è l’inevitabile ambiente trascendentale in cui ogni realtà — anche la nebulosa di Andromeda, anche ciò che penso al di là dell’universo finora esperito — deve essere inclusa proprio per venire riconosciuta e asserita come realtà, altra è la mia persona in quanto io stesso posso considerarla come realtà tra altre realtà, in un mondo infinitamente più vasto di essa (Fc, 254-255).

L’accesso all’ambiente trascendentale che costituisce l’orizzonte di ogni io è invece consentito — e anche qui Calogero fa tesoro sia della lezione socratica che di quella hegeliana — dal confronto dialogico con le altrui prospettive. Ogni trascendenza, anche quella divina, si basa infatti su questa capacità di andare oltre sé stessi, in quanto solo in questo modo possono instaurarsi «nel proprio universo altri universi», trasformando il semplice orizzonte nel quale sono destinate a rimanere confinate le scienze della natura in «quell’orizzonte di orizzonti» nei cui sviluppi e trasfigurazioni consiste la storia spirituale dell’uomo. Ma a questo punto risulta più che mai pertinente la domanda posta poco fa: la confusione tra le due accezione dell’io che Calogero attribuisce all’esistenzialismo non sarebbe imputabile anche ad Ortega?

Proprio la frase prescelta dal filosofo spagnolo per sintetizzare la sua posizione in merito consente di fornire una risposta precisa. Quando sostiene che «io sono io e la mia circostanza» Ortega ripete infatti il termine «io» proprio per lasciar capire che non si tratta dello stesso io, ma piuttosto di un io che esercita una sua attitudine peculiare, quella di rapportarsi alla propria circostanza, o, se vogliamo, di un io che si rapporta ad un altro sé stesso mentre si rapporta al mondo, o ancora più semplicemente, al proprio rapportarsi al mondo, alla propria circostanza attraverso una determinata prospettiva, un io che è quindi, in qualche modo, «spettatore di sé stesso» mentre si relaziona tanto alla propria circostanza che a quelle desumibili da altre prospettive. Non si tratta, come per Heidegger, di stratificare e fondere in una sorta di nuova sostanza un io ontico ed un io ontologico, dove il secondo costituirebbe in via definitiva quanto ultimativa la verità del primo: tale distinzione viene naturalmente colta sia da Ortega che da Calogero, ma entrambi tengono a mantenere distinti i due momenti al fine di poterne evidenziare il gioco dialettico e conoscitivo, che non può consistere per loro nella regressione drastica verso la consapevolezza di una tale differenza ontologica, ma che si basa piuttosto sulla vocazione di ogni centro prospettico ad integrare la totalità del mondo nel proprio orizzonte culturale, ovvero, più semplicemente, nel proprio orizzonte vitale e razionale.

Possiamo ora ricavare un quadro ancora più chiaro della differenza essenziale che intercorre tra l’impostazione categoriale di Heidegger e quella di Ortega confrontando il concetto orteghiano di «vita» con il «Dasein» heideggeriano, confronto che potrà rivelarsi utile anche per tentare di fornire una spiegazione dell’ambivalenza della valutazione data da Ortega dell’ontologia heideggeriana.

Ho ricordato che per quest’ultimo ciascun io è sé stesso solo insieme alla sua circostanza: non basta perciò, a definirne la posizione peculiare, il suo rapporto con la temporalità del proprio essere, col suo «essere per la morte». Questo riferimento essenziale, che pure rimane implicito nel termine «vita», la quale in fondo per Ortega non è che un momento sospeso tra un inizio e una fine egualmente ignoti, si da infatti per lui solo in forma mediata, attraverso cioè la mediazione delle prospettive individuali, che sono sempre anche filosofiche, ma più in generale simboliche e culturali, con le quali ciascun individuo si rapporta alla propria circostanza. Il fatto che in questo modo la riflessione orteghiana rimanga confinata in una dimensione che Heidegger definirebbe ancora pre-ontologica, oltre che venata da positivismo, che sia cioè ancora marcata da un carattere umanistico e antropologico, non solo non deve essere visto come un limite dell’assimilazione orteghiana del pensiero del filosofo tedesco, né come un suo fraintendimento, ma, viceversa, come il tema decisivo delle sue riserve e della stessa ambivalenza delle sue valutazioni. La frase «io sono io e la mia circostanza» scandisce la stessa retroazione del livello ontologico su quello ontico che Heidegger stratifica e sostanzializza nel «Dasein» per poi ricomporne la struttura come se si trattasse di una sostanza del tutto nuova e radicale. In questo modo l’essere dell’Esserci, divenuto entità ultima ed ultimativa, il fondo aperto della vita, dal quale soltanto si può gettare luce sullo stesso concetto di «essere», induce a presumere che la vita stessa possa essere riconsiderata in maniera autentica solo partendo da questa sua essenza, solo, in qualche modo, giungendo a coincidere con questa. Ma per Ortega la vita non coincide mai con la sua essenza. Al contrario, è sempre alla ricerca di questa coincidenza mediante l’adozione di prospettive di volta in volta diverse. In questo senso, l’»Essere per la morte» non deve essere confuso con l’esperienza più autentica della vita stessa. Innanzi tutto, l’uomo non «è»: l’uomo «vive», e vivere è incessante migrazione da sé stessi attraverso interiori paesaggi stranieri: non consiste nel rimanere saldamente ancorati alla propria essenza. Vivere vuol dire piuttosto essere abitati da un orizzonte interno rispetto al quale è in ogni momento necessario orientarsi di nuovo. Ortega non ha bisogno, per creare una filosofia «di terzo tipo» rispetto alla tradizione idealista e quella realista, di creare anche un’entità «di terzo tipo» come il «Dasein», ma si limita a rilevare due funzioni diverse dello stesso «io» con il quale tali tradizioni si sono confrontate e che sono ben evidenziate anche da Calogero: quella di rapportarsi alla propria circostanza e quella di osservare e valutare dall’esterno tale rapporto grazie alla capacità di porre ogni volta tra parentesi la prospettiva adottata. Da un lato infatti l’io è impegnato in questo rapporto, ad un tempo conoscitivo e morale, dall’altro ne è «spettatore», e proprio questa sua posizione particolare gli permette di non rimanere rigidamente vincolato alla propria prospettiva presente, ma di transitarvi verso quella che giudica di volta in volta la più autentica, ovvero quella che meglio incarna la propria vocazione.

Anche la differenza tra il linguaggio heideggeriano e quello di Ortega è da ricondursi alla permanenza, nella filosofia di quest’ultimo, di un taglio ancora antropologico e umanistico. Ma l’uomo di cui si parla in questo caso è sempre portato ad andare oltre sé stesso, a uscire fuori di sé e a mettere in discussione la propria visione del mondo. Il rapporto privilegiato che Ortega ha saputo instaurare con la lingua parlata non dovrebbe essere pertanto interpretato semplicemente come il frutto di un’abilità retorica, ma come un effetto di quel bisogno di chiarezza che considerava uno dei doveri fondamentali di ogni filosofo. Tale rapporto, che rende il suo stile tanto suggestivo ed efficace, è infatti possibile anche in quanto l’ontologia orteghiana non ha alcun bisogno di un «gergo» particolare, in quanto culmina nel suo ripiegamento all’interno dell’esperienza vitale dell’individuo umano. Non per questo si può sostenere che vi sia una consapevolezza minore della stessa «differenza ontologica» illustrata da Heidegger in Sein und Zeit: solo che in Ortega una simile differenza viene esaminata nella sua retroazione sul piano ontico, rendendo in questo modo superflua la creazione di qualsiasi gergo auoreferenziale, atto cioè a conservare in sé, ad ogni snodo concettuale, il marchio di tale differenza. Il movimento dialettico compiuto dalla riflessione di Ortega torna alla «vita» dopo aver colto i tratti peculiari dell’«essere dell’Esserci»: dopo averli riconosciuti come tratti essenziali della posizione dell’uomo rispetto al mondo e alla propria specifica temporalità li riconduce nell’alveo di un io che sa osservare dall’esterno il proprio rapportarsi alla sua circostanza, ovvero di un io che, pur essendo inseparabile da essa, subordina la propria essenza a una mediazione non meno essenziale.

Tale mediazione, tra l’altro, evita al filosofo spagnolo di scivolare in una prospettiva assimilabile a quella idealista, come invece capita ad Heidegger. L’aver infatti voluto racchiudere nel concetto di «Dasein» tutte le sue determinazioni essenziali, senza nulla di «irriducibile» lasciar fuori di esso, come nella migliore tradizione hegeliana, per poi però assolutizzare questo momento come il fondamento stesso di una nuova concezione dell’essere ancora da costruire, contrariamente questa volta al procedimento hegeliano, costringe il filosofo tedesco a cercare di forgiare un linguaggio nuovo e non traducibile nelle categorie della storia della metafisica, un linguaggio adatto a raccogliere e a portare seco, ad ogni suo passo, l’eco dello stratificarsi, nell’architettura di Sein un Zeit, della differenza ontologica fondamentale. Ortega, viceversa, una volta colta tale differenza essenziale, la riconduce nel contesto dell’esistenza per esaminare la dinamica del loro rapporto a posteriori, in quanto non presume di poterlo desumere a priori dalla stessa essenza. Questa non può consistere infatti nell’angustia di un regresso infinito verso la dimensione più autentica dell’esistenza, verso una radura dell’essere priva di condizionamenti conoscitivi e morali, ovvero alla sua diretta emanazione, ma «nell’impresa» del cercare una prospettiva che possa riconciliarci con la nostra circostanza, a sua volta specchio di un’altra prospettiva, ipotetica e futura, degna d’essere vissuta, e tale da permetterci d’intravedere, alla luce della successione delle nostre scelte, la nostra vocazione più autentica. Nel concetto di «Dasein» si sostantivizza quindi la consapevolezza di una differenza che Ortega torna invece ad articolare esaminandola nelle sue relazioni con la circostanza concreta e storica che fa di ogni vita «una vita», rendendo in questo modo vana la ricerca di quel linguaggio dell’essere che doveva contribuire all’esito mancato di Sein und Zeit, dal filosofo castigliano previsto, a quanto pare, con largo anticipo.

Quindi, pur essendo l’interpretazione di Ortega essenzialmente vincolata, come sostiene Pedro Cereso Galan, ad una impostazione antropologica ed umanistica (Ro, 378), ciò non comporta una sostanziale incomprensione della differenza ontologica heideggeriana, ma dipende piuttosto dalla scelta consapevole di esaminare le conseguenze di una tale differenza sulla superficie della vita, là dove ogni filosofo intellettualmente onesto si propone di ricondurre la tracce della propria speculazione. Viceversa, secondo Galan, Ortega non riconoscerebbe «la differenza ontologica» heideggeriana tra «ser» ed «ente», nel senso che l’essere («ser») si ridurrebbe al suo «eidos», per cui l’essere dell’ente non sarebbe nulla di più che l’ente nel suo essere, o in quanto essere, cioè nella sua identità e sussistenza propria, nel suo significato immanente. Per Heidegger invece l’essere dell’ente non indicherebbe una proprietà formale dell’ente, ma un originarsi dell’ente nel suo significato di io nell’apertura dell’essere. Secondo Galan è chiaro che

l’essere non si attualizza se non nell’ente (nicht west ohne Seinde), ma inversamente l’ente non si presenzializza senza l’essere, se non alla luce dell’essere. L’essere non è l’ente; in quanto atto di significazione lo trascende, e solo così può fondarlo. Ancora meglio, gli enti e i loro significati sono una proprietà dell’essere, ma questo, in quanto atto, va oltre il significato ed il concetto (epekeina tes ousias kai tou nous), perché è «l’a priori» inoggettivabile e intrascendibile dell’illuminazione (Ro, 379).

Questa distinzione non corrisponderebbe a quella proposta da Ortega perché, nella sua analisi, la differenza tra l’ausiliare «haber» e «ser» non sarebbe, secondo Galan, ontologica, ma solo modale: l’«haber» non è trascendente rispetto al «ser», perché in Ortega non c’è differenza ontologica e l’unica trascendenza che lui riconosce è quella tra l’io e la sua circostanza (cfr. Ro, 379-380).

Ma perché dovrebbe trattarsi di una trascendenza insufficiente o inadeguata? Si tratta di due trascendenze realmente diverse, come sottolinea Galan, oppure la loro differenza scaturisce proprio dalle sedimentazioni del gergo heideggeriano e non comporta da parte di Ortega alcun grado di consapevolezza minore?

Certo, se le cose stessero davvero come sostiene Galan il raziovitalismo orteghiano non sfuggirebbe nemmeno all’alternativa tra idealismo e realismo cui vorrebbe sottrarsi, giacché tale trascendenza può essere ricondotta, come sia Calogero che Adorno mettono in evidenza a proposito di Heidegger, ad una prospettiva idealista.

La trascendenza che potrebbe sottrarsi a tale prospettiva può essere invece desunta da un’attenta considerazione dell’espressione orteghiana a questo riguardo più ricorrente e significativa: «io sono io e la mia circostanza», dove l’elemento trascendente è il primo «io», mentre il secondo ne costruisce il mediatore immanente alla vita stessa. In questo senso, «l’a priori inoggettivabile» che secondo Galan sta in Heidegger a fondamento dell’essere dell’ente, e cioè, in termini orteghiani, della vita dell’uomo, si può manifestare per Ortega solo unitariamente alla mediazione di tale «io» immanente rispetto alla sua circostanza, e mai in una trascendenza pura, a sua volta espressione di una consapevolezza più alta, o addirittura «originaria».

La circostanza, a differenza della «mondità» (Weltlichkeit) heideggeriana, è infatti per Ortega una dimensione preorientata e a sua volta orientativa, analoga al «mondo ambiente» (Umwelt) di cui parla Heidegger, ovvero il mondo in cui l’Esserci si muove grazie ad una visione ambientale preveggente (Umsicht), ed è quindi sempre contessuta con una prospettiva che, oltre ad essere individuale, è anche culturale e razionale, pur conservando al suo interno la consapevolezza della differenza ontologica come un riferimento implicito, riscontrabile nella differenza tra il primo «io», «spettatore» e trascendente, ed il secondo, immanente e coinvolto nella relazione con la sua circostanza. Una simile posizione — che più che modale sembra proprio avere la funzione di consentire una relazione di trascendenza tra i due «io» — non pretende tuttavia di costituire una trascendenza assoluta ed un’essenza ultimativa, né pertanto di dare origine ad un nuovo tipo di consapevolezza autonoma da mediazioni prospetticamente e culturalmente orientate. Quando Galan scrive che «l’unica trascendenza che riconosce Ortega è quella tra io e circostanza», e che questa appartiene all’immanenza della vita: all’essere (haber) originario, in quanto per Ortega «la realtà assoluta come vita è a un tempo immanente e trascendente» (ibidem), sottolinea invece giustamente un tratto essenziale della lettura orteghiana di Heidegger, perché proprio ciò che Galan chiama «a priori inoggettivabile e intrasferibile dell’illuminazione» viene colto da Ortega nella sua presenza immanente all’interno della vita dell’io. Per questo non v’è motivo di ritenere che il non volersi limitare, da parte di Ortega, a cogliere un tale «a priori» soltanto nella sua trascendenza intrasferibile, e il ritenerlo piuttosto necessariamente trasferibile e mediato, e quindi, in una parola, anche immanente, debba comportare una mancata o minore consapevolezza della differenza ontologica che sta alla base di questa seconda differenza tra i due momenti sopra indicati: quello della trascendenza luminosa di tale «a priori», e quello della sua immanenza nella vita umana, ovvero del suo riverbero necessariamente mediato, preorientato e prospetticamente orientativo.

In altre parole, l’origine della differenza residua, ma pur sempre cruciale, tra le due impostazioni filosofiche, cui è riconducibile anche quella tra i due diversi linguaggi, può essere individuata nell’inversione della posizione tra essenza ed esistenza: se per Ortega, coerentemente con la tradizione gnoseologica e metafisica che Heidegger vorrebbe lasciarsi alle spalle, l’essenza continua ad essere una proprietà di un «quid» esistente e l’io continua ad essere un sinolo di forma e materia, pur sdoppiandosi e trascendendo in certo modo sé stesso, tanto da risultare in credito di senso rispetto alla propria esistenza; per Heidegger ciò che fa soggetto, ciò intorno a cui si struttura il rapporto tra essere e tempo è il portatore di una differenza ontologica che deve restare inscritta nel suo genoma lessicale per potersi differenziare, ad ogni passaggio dell’argomentazione, dagli altri enti, i quali viceversa non sono esposti ad alcuna apertura di senso, ma sono letteralmente insensati (unsinnig) (Et, 193).

Per quanto importante, una tale inversione non comporta tuttavia da parte di Ortega una consapevolezza in qualche modo minore della differenza ontologica inscritta in ogni scansione del gergo heideggeriano, che sfrutta a questo riguardo le doti innate della lingua tedesca già elogiate da Leibniz.

Ortega dunque non confonde affatto — come è stato invece sostenuto da Antonio Garcia Regalado (Oh, 233) — «il fenomeno concreto della vita umana e il compromesso esistenziale dell’uomo con la struttura antecedente che lo ha reso possibile», ma pensa effettivamente che tale struttura debba essere riesaminata nella sua retroazione sulla vita umana, che si sviluppa sempre a partire da una dimensione prospetticamente limitata, e non da una consapevolezza assoluta, ovvero da quella radura in cui l’essere ha rivelato la sua essenza. Il termine «vita» non è quindi un succedaneo del «Ser» heideggeriano — come sempre Regalado si esprime (Oh, 151) — se non nel senso che raccoglie in sé la consapevolezza della differenza ontologica tracciata da Heidegger per ricondurla nell’ambito della concreta esperienza umana ed esaminarne, in quella sede, tutte le implicazioni esistenziali. Per Ortega, infatti, il piano dell’essenza rimane sempre distinto da quello dell’esistenza, anche quando la struttura della prima sia stata riscontrata nella seconda, in quanto è solo rispetto a quest’ultima che può mostrarsi l’altro aspetto coessenziale della vita umana, che consiste nel rapporto con il proprio orizzonte individuale e storico-culturale: in altre parole, con la propria circostanza prospetticamente ridotta in modo da permetterci di sperare di poterci un giorno riconciliare con essa. Tale riconciliazione, tuttavia, non può essere conseguita solo grazie ad una consapevolezza ontologica di grado superiore, ma può essere solo ricercata attraverso la fatica di quella perenne migrazione fuori di sé in cui consiste «l’impresa», tragica e «sportiva» a un tempo, del vivere umano.

8. Conclusioni

L’essere umano è secondo Ortega ciò che manca di fronte alla vita, quell’ente particolare che è sempre in debito con la vita. La vita non basta a sé stessa e l’essere umano soffre per questo — come scrive Fontanelle — di «una certa difficoltà ad essere». Per lo stesso motivo il pensiero di ogni uomo è essenzialmente rivolto verso l’Altro, verso la propria «circostanza», e l’uomo è sostanzialmente emigrante, in quanto consiste nel non essere ancora e nell’essere, proprio per questo, in continua migrazione oltre sé stesso, come un animale ipotetico, originariamente dubbioso e spaesato, ma portato a credere e ad accomodarsi dentro le sue credenze. La sua vita è insicurezza, preoccupazione che si manifesta in un continuo aver qualcosa da fare, e quindi è storia delle sue illusioni e dei suoi naufragi. Per l’uomo il mondo è uno spettacolo che manca d’integrità e così il suo pensiero si aggira alla periferia del mondo nel tentativo di poterlo abbracciare con lo sguardo. Appoggiandosi all’orizzonte che può scorgere dal suo particolare punto di vista, ognuno produce così la sua rappresentazione — a volte mutuata da altre corrente e intese dire, altre volte maturata nella propria solitudine essenziale — attraverso un continuo dialogo con l’Altro, di volta in volta incarnato dagli altri particolari che lo circondano e dai loro particolari punti di vista, dalle tradizioni culturali che costituiscono il suo passato o dalla sua idea dell’assoluto, che può in taluni casi coincidere con la sua idea di Dio. All’inizio v’è per Ortega l’esigenza d’essere che caratterizza la vita, e d’altra parte la vita è l’unico luogo dove l’universo può riconoscersi: questo è il paradosso fondamentale che la costituisce. L’universo può riconoscersi solo nella vita e questa è essenzialmente mancanza ad essere, ricerca di un punto di vista organico che le consenta d’individuare la propria vocazione, così che questa possa fare da contrappunto a l’inquietudine che si rinnova oltre ogni certezza ed all’interno di ogni credenza nel dialogo incessante con la propria prospettiva

Questa tuttavia non può ignorare l’essere reale delle cose, l’indipendenza e l’oggettività del mondo che circonda ogni individuo ed ogni comunità d’individui, l’autonomia dell’Altro con cui si confronta e rispetto al quale deve trovare la propria posizione ed eleggere il proprio punto di vista individuale. Se infatti il mondo non fosse nulla di reale od oggettivo, se fosse soltanto una nostra rappresentazione o una proiezione dell’io, anche lo spaesamento ed il relativo tentativo d’orientarsi dell’uomo sarebbero attività arbitrarie e senza senso, ogni soluzione andrebbe egualmente bene, e non ci sarebbe pertanto alcun motivo per darsi tanto «daffare».

Tutta l’attività umana risulterebbe allora inspiegabile o folle, e l’uomo sarebbe vittima di una sconfortante allucinazione. Solo in quanto esiste una realtà su cui possiamo inciampare ha senso la nostra preoccupazione di evitarne gli ostacoli e gli imprevisti, solo in quanto ogni problema ha uno statuto oggettivo ha senso il tentare d’individuarne la soluzione.

La riflessione filosofica di Ortega pare dunque in buona parte impegnata proprio a liberare la filosofia novecentesca da quelle che considera le conseguenze del pensiero idealista e soggettivista che da Cartesio attraverso Kant e fino ad Hegel ha contraddistinto in maniera decisiva la riflessione filosofica occidentale. Ma se esiste un mondo oggettivo, se questo non è una proiezione dell’Io, ciò non implica per Ortega che l’Io sia per questo motivo meno reale o meno essenziale perché un mondo sia così com’è, ovvero affinché il mondo possa manifestarsi. Lo stesso universo, come si è detto, può riconoscersi solo nella vita, e questa banale verità costituisce il debito che ogni filosofia successiva ha con l’idealismo moderno in quanto esso denuncia l’insufficienza di ogni impostazione empirista, realista o positivista. La realtà non è nulla di a sé stante o indipendente in sé stessa: lo è dalla conoscenza umana e dai suoi strumenti per quanto concerne la sua esistenza e le sue leggi, ma non lo è per quanto riguarda il suo manifestarsi. Non costituisce una proiezione dell’Io, e tuttavia non è da esso totalmente autonoma, perché può riconoscersi solo nella vita e nell’attività conoscitiva e spirituale che questa produce.

In questo modo Ortega vorrebbe collocare la propria filosofia al di là della contrapposizione tra idealismo e realismo, e proporre, come quella di Heidegger, un superamento di due scuole di pensiero tradizionalmente antitetiche. Al di là di ogni possibile valutazione dell’esito di un simile tentativo, credo però risulti abbastanza chiaro, anche dal breve e lacunoso riassunto che ho appena tracciato della sua visione del mondo e dell’uomo, che le categorie di cui si serve a questo scopo sono — né pretendono di non essere, a differenza di quelle usate da Heidegger — ancora le medesime della tradizione che intende superare, e in particolare di quella idealista.

In maniera analoga, il suo linguaggio e il suo stile non si avvalgono di un impianto terminologico che pretenda di cristallizzare al suo interno i momenti salienti della sua «visione del mondo», ma lasciano trasparire le fluttuazioni cui sottopone le vecchie categorie dell’idealismo grazie ad una riflessione originale, senza enfatizzare le differenze con la tradizione gnoseologica e metafisica.

L’efficacia della prosa orteghiana si fonda infatti anche sulla rinuncia a un gergo proprio e su uno stile che non assume mai toni profetici od elitari; ma soprattutto Ortega non pretende di lasciarsi alle spalle le occasioni concrete del doloroso spaesamento da cui la sua riflessione prende le mosse, né il linguaggio con cui vengono usualmente espresse. La sua posizione non solo è facilmente valutabile e criticabile da chiunque gli si accosti in modo critico, ma potrebbe accogliere, in virtù del suo linguaggio aperto, qualsiasi altra concezione, anche molto diversa od opposta. Usando il linguaggio orteghiano si potrebbero esprimere altrettanto bene le posizioni del positivismo o della fenomenologia, o quelle di qualsiasi altro filosofo esistenziale successivo ad Heidegger, ma forse non di quest’ultimo: e non perché non sia possibile parafrasare con uno stile orteghiano le assunzioni fondamentali della filosofia heideggeriana, ma in quanto una simile traduzione andrebbe inevitabilmente incontro al sospetto di travisare i suoi tratti discriminanti e di non poter conservare il marchio di quella differenza ontologica che secondo Heidegger costituisce l’irriducibile balzello che separa la sua impostazione da tutte le altre, anche da quelle per certi versi affini. Individuando in questa consapevolezza ontologica radicale lo spartiacque che lo separa dal discorso esistentivo che prosegue comunque ininterrotto nel suo retroterra, dal brusio di tanti pensatori che continuano a esercitare la loro «ragione comunicativa» al di qua di ogni possibile gergalizzazione del problema dell’essere, Heidegger corre così il rischio di fare del proprio gergo la chiave di volta delle sue strutture argomentative.

A questo punto, per integrare le precedenti osservazioni, — e in particolare a quest’ultima, del resto già avanzata da Adorno, per il quale il gergo heideggeriano costituirebbe la via d’accesso ad un sapere iniziatico e settario — vorrei però ricordare gli elogi che dell’opera di Heidegger fa Juan de Mairena, l’ipotetico maestro di Antonio Machado, il grande poeta spagnolo amico di Ortega. Queste costituiscono infatti un valido esempio di un altro tipo di lettura dell’opera heideggeriana e possono indurre a qualche ulteriore ripensamento. Immaginando come il suo «alter ego» Juan de Mairena avrebbe esposto il pensiero dell’illustre professore di Friburgo, Machado osserva tra l’altro che

Heidegger con la sua metafisica cerca l’uomo volgare prima che lo studente di filosofia, l’uomo quotidiano; e nell’esistenza di questo essere nel mondo (in-der-Welt-Sein) intende scoprire una caratteristica «omnibus», una vibrazione umana anteriore ad ogni conoscere: un’inquietudine esistenziale, l’a-priori emotivo per il quale ogni uomo mostra la sua partecipazione nell’essere, anticipando ogni presenza o apparizione concreta che possa passivamente contemplare (PM, 509).

Questa inquietudine (Sorge), questa preoccupazione, che sorge dal fondo dell’umana esistenza finita, è anche per Machado «di suprema importanza, giacché l’uomo è l’essere esistente per eccellenza, l’essere in cui essenza ed esistenza si fondono, l’essere la cui essenza consiste nell’esistere» (ibidem), e nell’opera heideggeriana occupa giustamente una posizione centrale. In essa ci viene proposta infatti come «un timore o sussulto che il si anonimo (das Man) tranquillizza trivializzandolo, convertendolo in tedio abituale, ora trasfigurato in angoscia incurabile davanti all’infinito abbandono dell’uomo: dal tedio all’angoscia, passando per l’immagine spaventosa della morte: tale è la via di perfezione che ci è scoperta da Heidegger» (ibidem).

L’angoscia di cui si parla in Essere e tempo appare così a Machado come la grande diga su cui s’infrange l’esistenza volgare, una visione della totalità del nostro esistere e una riflessione sulla morte, «un sentimento complicato con la totalità dell’esistenza umana e col suo stato di abbandono di fronte all’impenetrabile e opaco infinito» (PM, 511), e Heidegger assume ai suoi occhi il merito di averci presentato la morte non più come «un accidente occorso nella nostra esistenza mondana», ma come «l’esistenza in se stessa nel punto di raggiungere la sua propria fine», tentando in questo modo «di darci una certa consolazione della morte con la morte stessa» e fornendoci il coraggio per affrontarla attraverso la decisione rassegnata (Entschlossenheit) di morire e la non meno paradossale libertà per la morte (Freiheit zum Tode)» (ibidem).

Machado pare dunque attribuire ad Heidegger, per bocca di Mairena, gli stessi meriti che lungo questa breve riflessione gli ho invece sottratto, attribuendoli piuttosto ad Ortega. Ma i suoi apprezzamenti dell’illustre professore di Friburgo si velano subito dopo di una riserva che, sebbene in una forma meno ironica e discreta, abbiamo già incontrato, perché «questa via di perfezione, che può incominciare con l’inquietudine radicale della nostra esistenza […], non è meno sostanziale della «via all’ingiù» (hodos kato) dell’esistenza alla deriva o che fugge da se stessa (uneigentliche Existenz), la quale via, sotto l’influsso del si anonimo — das Man — noi tendiamo a percorrere, fuggendo da noi stessi, senza cercarci per questo negli altri». Ma Heidegger dice anche che in questo modo «ciascuno diviene (wird) altro e nessuno se stesso», con una frase d’intenzione dispregiativa che il suo maestro «non avrebbe del tutto approvato» (cfr. PM, 510). E non l’avrebbe approvato — precisa Machado in nota — perché il voler arrivare ad essere altro «è l’unico affanno profondo che può agitare le viscere dell’essere», cosa di cui Heidegger non sembra accorgersi (cfr. ibidem).

Si tratta forse della stessa passione di essere un altro su cui si sono soffermati, oltre a molti filosofi, anche altri poeti del nostro secolo, come ad esempio Borges e Pessoa, e che costituisce anche una vocazione non accessoria di ogni filosofo, che è sempre quella di diventare, percorrendo un duplice cammino, anche non-filosofo: il suo compito infatti, se può imporgli di dare vita ad un proprio linguaggio, dovrebbe poi indurlo anche scioglierne le fila per farlo meglio circolare tra gli altri che condividono con lui l’avventura del pensiero, per dialogare con i loro linguaggi e le loro visioni del mondo, in un gioco di specchi e trasfigurazioni che scandisce sempre anche le tappe del proprio percorso.

Nonostante questa riserva — questa dimenticanza della «via all’in giù», o della retroazione di una consapevolezza ontologica sul piano ontico, e quindi anche verso «la superficie» del pensiero e dell’esperienza umana, come dice Ortega — Machado giunge a paragonare Heidegger a Socrate e alla scuola delfica e considera la sua filosofia animata da una «profondità lirica» destinata ad attrarre i poeti «come le farfalle alla luce» (PM, 513), perché il mondo del poeta è quasi sempre materia d’inquietudine e Heidegger le dà finalmente voce filosofica.

Ma al termine di queste considerazioni, tutte decisamente elogiative ed immuni dagli accenti critici e puntigliosi in cui, sulla scia delle osservazioni di più agguerriti filosofi, anch’io sono incappato — Machado consiglia i suoi lettori di fermarsi «a meditare sulla soglia di questa filosofia prima di penetrare in essa», di cercare di avere nei suoi confronti «una posizione più umana che scolastica e pedante», senza abbandonare «quel «minimum» di precauzione e d’ironia, senza il quale ogni filosofare è un’attività superflua», perché le conclusioni dei filosofi, che di solito nulla concludono, per quanto serie possano essere vanno prese meno sul serio dei loro cominciamenti e delle loro visioni, di quelli eterni belvedere lasciatici dagli antichi greci ed innanzi ai quali abbiamo iniziato a pensare (cfr. ibidem).

E se anche noi volessimo, in conclusione del nostro percorso, far tesoro delle lievi e benevole considerazioni di Machado e seguire il suo consiglio d’intrattenerci sulla soglia della filosofia heideggeriana piuttosto che addentrarci in essa fino ad appropriarci del suo gergo, finiremmo indirettamente con l’assecondare, e forse nel modo più efficace, anche il suggerimento che Calogero rivolge ai lettori di Heidegger affinché riescano meglio a cogliere e salvaguardare «il contenuto vitale del suo pensiero», per lo più celato sotto «una spessa scorza verbalistica», e tuttavia da questa scorporabile: quello di avvezzarsi a leggere le sue pagine «con la massima diffidenza critica, e a non concedergli per buono nessun esercizio di suggestione oratoria» (LH, 15-16).

Il grande successo della filosofia heideggeriana impone comunque — come Löwith giustamente ci richiama a fare — d’interrogarsi su cosa ci sfugga delle sue ragioni, perché nonostante tutte le possibili critiche la sua filosofia continua ad ergersi come un pilastro fondamentale della cultura del nostro tempo. Potremmo forse attribuire tale successo ad un elemento prettamente stilistico, perché, come dice Borges, «le cose solo suggerite sono molto più incisive di quelle spiegate» (Ip, 33-34) e Heidegger, specie in alcune opere, tende a procedere nella sua speculazione più suggerendo e accennando che non spiegando; oppure potremmo attribuirlo al suo contenuto realmente innovatore, ad una specie di rivoluzione che avrebbe compiuto nel cuore della metafisica occidentale. Ma in ogni caso non mi sembrano da trascurare i consigli di Machado, il suo invito ad una lettura ironica e degergalizzata all’opera heideggeriana, anche quando questa dovesse farci correre il rischio di smarrire momentaneamente le capacità che il suo linguaggio ha di rammemorarci ad ogni passo la struttura profonda del suo pensiero: cosa che oggi forse non è nemmeno più necessaria, a causa della consumata e diffusa assimilazione delle sue coordinate essenziali.

Secondo Machado il merito principale della sua filosofia non consiste tanto, come per Ortega, nell’aver compreso che la vita è innanzi tutto un «aliquid faciendum», un darsi «daffare» per colmare una sostanziale mancanza ad essere, quanto piuttosto nell’aver invitato a rispondere in modo nuovo alla domanda cruciale della metafisica: «che cosa è l’essere?». Heidegger suggerisce infatti di cercare la risposta a questa domanda nell’esistenza umana, perché «per penetrare nell’essere non c’è altra porticciuola se non l’esistenza dell’uomo, l’essere nel mondo e nel tempo» (PM, 513), senza dimenticare che questo «è anche l’essere che trova se stesso nel trovarsi con la morte» (PM, 516).

Forse Heidegger avrebbe disapprovato questo linguaggio e avrebbe preso le distanze dal livello di consapevolezza ontologica in esso implicito, movendo nei suoi confronti critiche equivalenti a quelle già avanzate nei confronti di Kierkegaard, o di Sartre. Oppure no, e comunque non ci è dato saperlo. Certo, pur potendo solo immaginare le sue obiezioni, anche dall’eventuale reazione alla sintesi della sua filosofia proposta da Machado si sarebbero potuti trarre utili lumi per comprendere che cosa in essa sia più sussidiario: se il linguaggio per il pensiero che si fa «meditante», o il pensiero per il nuovo linguaggio dell’essere cui si proponeva di dare vita.

9. Abbreviazioni delle opere citate

Au
Ortega y Gasset, Aurora della ragione storica, trad. it. Milano, 1983.
Dm
Jürgen Habermas, Il discorso filosofico della modernità, trad. it, Bari, 1987.
En
Martin Heidegger, Encuentros con Ortega y Gasset, in Clavileno, maggio-giugno 1956, VII, n. 39.
Et
Martin Heidegger, Essere e tempo, trad. it. Milano, 1976.
Fc
Guido Calogero, Eredità e sviluppo dell’idealismo; in La conclusione della filosofia del conoscere, Firenze, 1960.
Fe
Ortega y Gasset, Meditazioni sulla felicità; trad. it. Milano, 1986.
Fi
Ortega y Gasset, Cos’è filosofia; trad. it. Casale Monferrato, 1973.
Ga
Theodor W. Adorno, Il gergo dell’autenticità; trad. it. Torino, 1989.
Ip
Jorge L. Borges, L’invenzione della poesia. Lezioni americane, Milano, 2001.
Lc
Umberto Galimberti, Linguaggio e Civiltà, Milano, 1977,
LH
Guido Calogero, Leggendo Heidegger, estratto dalla Rivista di filosofia, vol. XLI, 1950, fasc. 2.
Le
Emmanuel Levinas, Scoprire l’Esistenza, Milano, 1998.
Lo
Karl Löwith, Saggi su Heidegger, trad. it. Torino, 1974 (prima ed. 1966).
Lu
Martin Heidegger, Lettera sull’umanismo, trad. it. Milano, 1995.
Mc
Mariano Campo, Psicologia, logica e ontologia nel primo Heidegger; in Rivista di filosofia neoscolastica, estratto dal fascicolo di Novembre 1939-XVIII, anno XXXI, fasc. VI; pp. 474-491).
Oh
Antonio Garcia Regalado, El labirinto de la razón, Ortega y Heidegger; Madrid, 1990.
Pg
Richard Wisser, Pensieri di gratitudine, trad. it. in Risposta a colloquio con Martin Heidegger, Napoli, 1992, pp. 61-104.
Pl
Ortega y Gasset, La idea de principio en Leibniz y la evolución del la teoria deductiva, Madrid, 1992.
PM
Antonio Machado, Prose, trad. it. Roma, 1968.
Ro
Pedro Cereso Galan, El nivel del radicalismo orteguiano, la confrontación Ortega/Heidegger; in AA.VV. Teorema. Ortega en perspectiva. Universidad complutense de Madrid, 1981; Vol. XIII/3-4; pp. 345-384.
Sa
Armando Savignano, J. Ortega y Gasset. La Ragion Vitale e Storica, Firenze, 1984.
Sm
Rudolf Carnap, Il superamento della metafisica mediante l’analisi logica del linguaggio; trad. it. in Il Neoempirismo, Torino, 1969, pp. 504-540.